“Munich Games” è la più inattesa delle celebrazioni. Ammesso si possa far rientrare questa serie in tale categoria. E non è detto. L’evento è quello che tv e cinema hanno più volte affrontato nel corso degli anni, soprattutto nel 2022 quando, per l’appunto, si celebra la memoria degli atleti israeliani morti durante i Giochi di Monaco ’72 cinquant’anni anni fa. Poche settimane fa “McKinley” ha raccontato del pregevolissimo docufilm intitolato “Il settembre nero di Monaco” produzione Sky che offre uno sguardo nuovo (e materiali inediti) su quella che è stata la pagina più nera e assurda della storia olimpica.
Ora Sky propone (sei episodi, due a settimana) un’altra sua produzione seriale che percorre una strada nuova: il settembre ’72 è all’origine della storia ma i tempi sono i nostri e il taglio non è più quello del docufilm o del reportage ma della spy story con frequenti digressioni nell’action movie, senza esagerare però.
La strada è quella segnata da “Munich”, il film di Spielberg del 2005: dall’evento originale (la carneficina di Monaco) nascono delle storie. In quel caso era l’operazione che il Mossad portò avanti per uccidere i responsabili della strage: in “Munich games”, la trama guarda più avanti che indietro. Siamo nell’oggi: a Monaco hanno organizzato un match della pace fra un club di Tel Aviv e uno di Monaco (nomi farlocchi) ma c’è chi vorrebbe trasformare il match nell’occasione per un nuovo attentato.
Ora: si prova un certo senso di straniamento. Perché se il film di Spielberg era dolente anche nel suo cotè action, qui le sottostorie che indulgono ai canoni della fiction televisive (affetti, tradimenti, poliziotti etc etc) lasciano nello spettatore la sensazione di trovarsi di fronte ad una narrazione classica: ma 50 anni fa i morti ci sono stati davvero.
Direte voi: embè? Forse che non si fanno fiction su Pearl Harbour, su Hiroshima e Nagasaki, sulla battaglia delle Termopili o sui massacri dei Khmer Rossi in Cambogia? Certo che sì. Ma in questo caso, forse perché il ricordo è stato potentemente evocato dai reportage di cui sopra, è come se una citazione così esplicita dei fatti reali avesse un po’ il profumo della furberia. Si potrebbe supporre per solleticare l’ansia degli spettatori, se non fosse che la realtà, quella vera, è di questi tempi assai più ansiogena di qualunque sua rappresentazione televisiva. Oppure c’è un’altra possibilità: e se non si trattasse, invece, che di un what if, della narrazione di qualcosa che avrebbe potuto essere e non è stato oppure è stato sventato? Nella realtà? Chissà.
Da non perdere: le inquadrature dell’Olympiastadion vuoto, un vuoto che richiama il pieno, che sarebbero piaciute così tanto alla buonanima della Riefenstahl. E l’interpretazione di un attore israeliano, Doval’e Glickmann, che mezzo mondo ha apprezzato come l’indimenticabile Shulem Shtisel della serie omonima. Non indimenticabile, Munich Games; ma da vedere.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.
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