Torniamo a Magic Johnson. Come abbiamo visto nella serie Apple Earvin è comodamente seduto a raccontare le curve della sua vita di sportivo e di uomo. Intervengono naturalmente Kareem, Isaiah Thomas, la moglie Cookie. A fare la differenza sono i primi piani sul suo volto che raccontano della sua vita forse più delle sue parole. Ma poi entra in gioco “Winning Time” di Adam McKay, il geniale regista di “Don’Look Up”, la più nitida narrazione dell’imbecillità umana (qualora ancora qualcuno avesse dei dubbi in merito) vista durante le ultime festività natalizie. E allora tutto si evolve ulteriormente. Perché se il gioco è grosso modo lo stesso (la docufiction racconta con i personaggi reali, la fiction reinventa il racconto di cui sono protagonisti) il regista ci ha messo un registro satirico e uno stile alla Laurel&Hardy (Stanlio e Ollio) da strappare applausi.
Alcuni protagonisti (il proprietario della franchigia Jerry Buss interpretato da John Reilly e il manager Jerry West, l’”autore” del record più incredibile della storia Nba con un solo successo su nove finali disputate, la cui silhouette ancora oggi è il marchio Nba) prendono lo spettatore per mano e lo conducono nella storia. Come? Semplice: guardando in camera. Come Hardy faceva dopo che Laurel gli aveva rovesciato il cocktail sui pantaloni. L’effetto è straordinario: non sei più lo spettatore seduto sul divano ma sei in campo al Coliseum a guardare Magic che si allena da solo mentre Buss ti guarda e dice: visto che roba? Te l’avevo detto. E la caratterizzazione fumettistica dei personaggi non fa altro che aumentare la rapidità con cui ti ritrovi ad amarli, quei personaggi.
Dunque che fare? Anche in questo caso la soluzione non può che essere una: vederle contemporaneamente, magari alternandole, le due serie. In modo da diventare intimi di Cookie, Magic e Jerry. Con un’efficacia emotiva mai vista prima.
THIS IS THE END
Che morale trarre da tutto questo, se ce n’è una? Semplice: la serialità televisiva sta preparando un futuro per se stessa partendo da quello che poteva essere il suo maggior limite: la ridondanza. Troppe serie, troppe storie, troppi personaggi. Qualcuno deve essersi chiesto: perché non rimandarci l’uno all’altro invece di tentare di sottrarci pubblico a ogni puntata sospinta? Non esiste più “quella” serie, ma “la serialità” intesa come un racconto unico. Perché non immaginare che partendo dalle storie di Magic o Michael Peterson nascano a frotte altre storie che si agganciano fra loro partendo da diversi distributori, fino a creare un mondo? E quale terreno può esserci meglio di quello dello sport per disegnare un multiverso del genere, alla Dottor Strange? Il maggior limite a tutt’oggi è rappresentato dalla limitata estensione temporale delle giornate: 24 ore e bisogna pure lavorare, dormire, mangiare, leggere, correre, nuotare, amare non necessariamente in questo ordine. Ma chissà: con un chip alla base del cervello, un giorno, tutto si risolverà. Non più connessione totale ma narrazione totale.
Bello, brutto? Chi lo sa.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.
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