EPISODIO 1 | Meglio la finzione o la vita vera? Domanda non proprio nuova, se la intendiamo riferita alla dimensione esistenziale. Ma se invece si sta guardando ai prodotti di entertainment televisivo allora la questione cambia. E una risposta, per quanto si possa cercare quella più arguta, può solo essere unica, personale. E soprattutto non c‘è mai stato un momento come questo in cui, sullo schermo preferito da ciascuno, finzione e realtà si confrontano.
Partiamo dai fatti. In questi giorni ci sono quattro serie tv che si fronteggiano: ma su due storie soltanto. Una sportiva e una no. Quella sportiva è la vicenda dei Lakers e, nello specifico, di Magic Johnson. Su Apple+ già da qualche settimana è visibile “They Call me Magic” in cui Earvin Magic Johnson (oggi un placido signore nel cui sguardo però si coglie una certa dolente nostalgia sovrapponibile a quella di Michael Jordan nell’ultima sequenza di “The last dance”) racconta della sua vita. L’amore, le avventure, la rivalità con I Celtics e con Larry Bird (che sorride molto meno), l’Aids eccetera. Su Sky (visibile on demand) però c’è la stessa storia, quella di Magic, in versione fiction: “Winning Time”. E che fiction! Un’eruzione continua di emozioni, risate (tante) e sofferenze (vere) che dopo la visione impone una domanda: ma quanto deve essere durata la fase di scrittura, con quali menti al lavoro e in quanto tempo per arrivare ad un risultato del genere?
L’altro confronto è invece non sportivo: Sky sta centellinando (che fastidio) gli episodi di “The staircase”, la fiction in cui un eccelso Colin Firth interpreta Michael Peterson, lo scrittore americano condannato per avere assassinato la moglie mentre lui ha sempre sostenuto che invece è caduta dalle scale. Un caso reale che si trascina da 15 anni e sul quale Netflix-Canal Plus si erano gettati già anni fa realizzando una serie omonima (“The Staircase”) in veste però di docufilm: documenti originali, videotape della polizia, interviste ai personaggi reali. E sul rapporto fra tali parenti è doveroso soffermarsi un attimo. Il regista della serie Netflix è il francese Jean Xavier De Lestrade che, guada caso è anche produttore della serie Sky-Hbo. Lui è il punto di congiunzione dell’operazione cui bisogna guardare. La serie americana non è la copia hollywoodiana del docufilm francese: ma è di fatto la storia di come LA SERIE FRANCESE (le donne e gli uomini che l’hanno girata, montata e presentata sul mercato) ha influito sulla storia reale di Mr. Peterson e sulla sua vicenda giudiziaria.
Nella serie francese assistiamo alle interviste reali, ai dialoghi degli inquirenti e alle riflessioni dei periti di parte; in quella americana l’occhio si alza e vede quelle stesse interviste, riflessioni e quelli stessi dialoghi effettuati dalla troupe, assiste ai litigi fra la montatrice (Juliette Binoche, mamma mia), e i suoi responsabili. Lo spettatore è giudice della stessa storia potendo approfittare di più punti di vista. Vive un’epifania di METASERIALITÀ televisiva, della telecamera che non solo riprende ciò che c’è ma entra nella storia, ne diventa protagonista.
E che può fare lo spettatore per non confondere due filoni narrativi ma, anzi, per godere di entrambi? Vedere le due serie contemporaneamente, of course. Approfittare di questo esperimento unico.
FINE 1^ PARTE
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.
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