Finalmente “In Fuga dagli Sceriffi” il libro di Simone Basso sul ciclismo degli anni ’80, è uscito in versione cartacea. Lo si può acquistare su Amazon a questo link. E in esclusiva per SPORTinMEDIA, dopo l’anticipazione in occasione dell’uscita del libro in versione digitale, ecco un altro estratto, questa volta dedicato a una prova che i meno giovani ricordano perfettamente: la 100km a squadre.
Capitolo 14.
Centomila metri a perdifiato
La Cento chilometri a squadre, la prova concettualmente più esagerata della pedivella, fu la Formula Uno della specialità: il vertice futurista, nemmeno fosse dipinto da Botta, che portò oltre i limiti dell’umano.
Blade Runner che esasperarono ogni aspetto fisiologico, biomeccanico e tecnologico; su una striscia di asfalto, solitamente un’autostrada deserta, con solo una vera curva, un giro di boa a 180 gradi per puntare all’arrivo.
Il ciclismo alla sua massima potenza, evirato di qualsiasi addobbo epico e consolatorio, gesto pedalatorio puro di un treno con quattro atleti sincronizzati all’unisono. Valhalla del passista inferocito, si sviluppò nello scontro incrociato tra scuole storiche.
Questa caratteristica elitaria, che la rese originale e irripetibile, contribuì anche alla sua eutanasia: troppo legata alle nazioni che ne costruirono la leggenda, difficile da esportare (soprattutto per il gap tecnico) nei Paesi nuovi che CIO e UCI volevano introdurre nel panorama.
Oui, l’argent…
La Cento fu occidentale negli avamposti italiani e della Germania Federale, un po’ nordica (l’èra dei fratelloni svedesi Gösta, Sture, Erik e Tomas Petterson) e francese; orientale nelle corazzate DDR e CCCP, con la vigorosa partecipazione di Cecoslovacchia e Polonia. I polacchi nei Settanta divennero dominanti, grazie soprattutto all’apporto del principe Ryszard Szurkowski, che al mondiale di Barcellona ’73 dipinse il van Gogh dell’iride, bissata a pochi giorni di distanza con la prova in linea: impresa mai più realizzata.
Gli Ottanta furono decisivi nella crescita entropica del settore: anche il look sci-fi coadiuvò l’effetto-Urania degli ensamble in fila indiana, che espansero le conoscenze tecnologiche e fisiologiche dell’intero sport.
I body sempre più aerodinamici, prosecuzione estiva di quelli degli uomini-jet della discesa libera, i caschi studiati nelle gallerie del vento; i mezzi che anticiparono le rivoluzioni nello sviluppo dei telai e della componentistica.
Nel 1981, a Praga, i francesi cavalcarono biciclette con i manubri a corna di bue e le ruote di dimensioni diverse fra loro. La prima soluzione (accolta con scetticismo dai soloni di casa nostra) fu adottata anche dalla Germania Est, che stravinse l’oro: i quartetti in grigio di quel periodo furono sempre straordinari, dall’impareggiabile Boden-Drogan-Kummer-Ludwig in terra boema alla Panzerdivision (Ampler-Kummer-Landsmann-Schur) oro a cinque cerchi a Seul ’88.
A tracciare il progresso arrivò anche la storica spedizione olimpica di BiciItalia a L.A. ’84: le lenticolari del professor Antonio Dal Monte, evoluzione del prototipo moseriano, si accompagnarono al talento di Marcello Bartalini, Marco Giovannetti, Eros Poli e Claudio Vandelli. Le evoluzioni della carriera dei quattro furono l’ennesima smentita allo stereotipo fosco che ha sempre circondato tale atto di forza. Impresa atleticamente esigentissima, per alcuni troppo, regalò al professionismo dozzine di grandi campioni su strada e pista.
Basterebbe ricordare, come esempio massimo, che nel quartetto olimpionico dei tulipani nel 1968 pedalarono due fenomeni di longevità agonistica come Joop Zoetemelk e René Pijnen.
E al loro fianco Fedor den Hertog, l’anti-Merckx che decise – per scelta – di rimanere dilettante fino ai ventisette anni.
Azzurra, nel fantamiglioramento della Cento, continuò nei momenti di gloria assoluta. A Villach 1987, Roberto Fortunato, Eros Poli, Mario Scirea e Flavio Vanzella sconfissero per dodici secondi un’Unione Sovietica fortissima, recuperando più di mezzo minuto di svantaggio nell’ultimo quarto di gara. Ad aiutarli nell’impresa, un cavetto di acciaio che collegava le tutine degli atleti ai rispettivi manubri; un espediente geniale per consentire una spinta più forte con il rapportone sui falsipiani in leggera salita.
I verbruggeniani decisero di ammazzare la Cento a inizio Novanta, sacrificandola anche per l’emergente mountain bike. Cancellarono un pezzo importantissimo del ciclismo, la messa iridata di metà settimana, la Coppa delle Nazioni, la Settanta degli juniores, obbedendo alle ferree disposizioni del marketing imperante.
Yeah, money talks…
Il funerale, l’ultimo capitolo della saga, fu a Palermo nel 1994: una festa mesta, New Orleans dopo l’uragano Katrina, celebrata da un successo italiano su francesi e tedeschi, questi ultimi riunificati senza l’alter ego orientale, l’ennesimo segno dei tempi volati via. Alla premiazione, come in un racconto di Leonardo Sciascia, si presentò il mandante del delitto, Hein Verbruggen in persona: raccolse una selva di fischi e d’insulti dal pubblico, sparuto ma competente.
Sì, lo sterco del diavolo…
SINOSSI
In fuga dagli Sceriffi nasce, nel 2011, da una proposta di Stefano Olivari, editore e fondatore di Indiscreto. Scritto in due mesi, e modificato ad libitum, era già là negli anni Ottanta: bastava viverli senza la prospettiva di un posto comodo, ben remunerato, o da tifoso strillone e fanatico. Il libro ricostruisce la storia di quel ciclismo, in un decennio-chiave per l’evoluzione (globale e tecnica) della disciplina, dall’idea stessa dello sport della bici. Fa dunque a meno della nostalgia da quattro soldi, di un certo immaginario di cartone, smontando tante leggende metropolitane imposte dal quarto e dal quinto potere. Utilizzando un universo ricco di storie come nessun altro in Europa, il ciclismo è il nostro baseball, si raccontano gli eroi, gli antieroi e le maschere di quell’evo della pedivella tricolore (gli sceriffi Moser e Saronni; gli scapigliati Battaglin, Baronchelli, Visentini, Contini), regalando anche un’ampia letteratura dei fuoriclasse dell’epoca (Hinault, Fignon, Kelly, Longo, Sercu), provenienti magari da nazioni esotiche, impensabili nello scenario del grande ciclismo qualche anno prima (Sukhoruchenkov, LeMond, Nakano, Herrera). E illustrando il panorama privilegiato di luoghi (come la foresta di Arenberg, il Colle dell’Izoard, il Palazzone di San Siro) che diventano il teatro delle loro gesta e delle nostre vite.
In fondo, “In fuga dagli Sceriffi” soddisfa una missione possibile quanto ambiziosa: proporre un’opera, sullo sport come vettore culturale, mai scritta prima.
L’AUTORE
Simone Basso, nato nel 1971, ha scritto di sport e cultura per quotidiani (Giornale del Popolo), periodici (American Superbasket e Cycling Pro tra gli altri) e siti web (Indiscreto). Ribaltando nome e cognome, come Enomisossab, si occupa – da anni – di un progetto musicale sulla vocalità.
Prefazione di Herbie Skyes