SPORTinMEDIA ha il piacere di pubblicare un estratto di “In Fuga dagli sceriffi – Il ciclismo negli Anni ’80 (oltre Moser e Saronni)“, in uscita domani. L’autore è Simone Basso, autentico punto di riferimento per chi scrive. Ho conosciuto Simone attraverso i suoi articoli – alti, illuminanti, anti-retorici – su Indiscreto. Era il periodo che potremmo definire “del doping”, ovvero quello in cui, attraverso una ricerca meramente personale, capii come funzionavano realmente le cose nel ciclismo (e non solo) degli anni ’90 e 2000. Da lì iniziai a pubblicare articoli e documenti, creando una vera e propria sezione nel vecchio blog (ebbi anche il piacere di conoscere due persone che in questi giorni potrebbero, finalmente, trovare giustizia: Sandro Donati e Alex Schwazer).Quella voglia di scoprire e capire a fondo le cose – stante l’omertosa complicità della stra-grande dei media sportivi italiani – nacque proprio dagli articoli di Simone. Riuscii a mettermi in contatto con lui e da lì iniziò una collaborazione, con la pubblicazione di alcuni pezzi per Blog-In (vedi).
Domani, quindi, esce il suo libro, dedicato a storie, personaggi, anti-personaggi e luoghi del ciclismo negli Anni ’80 (gli sceriffi sono Moser e Saronni, come da copertina). Personalmente lo comprerò immediatamente. Credetemi, non è una televendita o una marchetta, ma un consiglio spassionato. Simone Basso che scrive di ciclismo è il non plus ultra. Un po’ come Federico Buffa che racconta aneddoti e personaggi, Gianni Clerici che scrive di tennis, Max Ambesi che racconta gli sport invernali. Insomma, senza dilungarsi troppo, saranno 10 euro ben spesi. Leggere per credere (qui trovate il capitolo dedicato agli sponsor, con un ampio riferimento ad Adriano De Zan e al tele-ciclismo di quegli anni).
CAPITOLO 5.
Mobili, gelati e teatrino
Il ciclismo, trattato nei grandi centri urbani con la sufficienza che si concede ai circhi itineranti, è antropologicamente legato alla provincia; pare vivere negli spazi infiniti del pensiero dei milioni di Antonio Mombelli che popolano lo Stivale.
Essendo il Belpaese espressione della maggioranza silenziosa dei piccoli comuni, e le metropoli solo minoranza rumorosa, la pedivella (al solito) anticipò tutte le dinamiche dello sport professionistico: fu dunque, anche nelle sponsorizzazioni, apripista della valorizzazione dei marchi; prima legati al mezzo meccanico, poi abbinati allo scibile industriale, dalla Crema Nivea di Fiorenzo Magni (1954) in poi.
La bici sviluppò un rapporto speciale con la più scamiciata imprenditoria del tessuto industriale: là dove ci furono artigiani coraggiosi, arrivò il pedale con il suo sudatissimo eroismo.
Visse in simbiosi con i prodotti-standard di un consumismo, incredibile ma vero, morigerato e infinitamente meno nevrotico: fu il trionfo dei gelati, dell’abbinamento coloratissimo con coni e vaschette, e dell’arredamento casalingo, proposta rassicurante e famigliare del mobile da salotto.
La Sanson dell’omonimo patron Teofilo congiunse, a cinque anni di distanza, i trentini Francesco Moser e Maria Canins; la GiS di Pietro Scibilia (poi alle prese con la pallonara Pescara) mise assieme addirittura, naturalmente in fasi separate, Beppe e Francesco, oltre a “Monsieur Roubaix” Roger De Vlaeminck e Franco Chioccioli; la Sammontana seguì la traiettoria ascensionale del Moreno Argentin giovane.
Per i mobilifici e i divani si trattò di un’occupazione leninista del territorio: la Del Tongo di Saronni attraversò quasi integralmente il decennio, la Chateau d’Ax concluse l’epoca di Ceccoe aprì quella di Gianni Bugno.
E poi San Giacomo, Famcucine (il Franzdi mezzo), Metauro Mobili, Ariostea (il ritorno del dsGiancarlo Ferretti dopo la diaspora della Bianchi), Mareno, Maggi, Alba Cucine, Jolly Componibili. Un numero incredibile, straordinario, di mecenati del ramo che scelsero il ciclismo come vettore del proprio messaggio pubblicitario.
Una situazione divertente che i Monty Phyton, rileggendo la loro celebre corsa ciclistica tra pittori famosi, avrebbero ridipinto con spirito dadaista: a venti chilometri dall’arrivo, in fuga un mobile bagno con la cameretta per bambini. Nel gruppo, all’inseguimento due cucine e tre divani da soggiorno.
Il cerchio si chiuderebbe citando serrature (Alfa Lum), isolanti acustici (Termolan), carta da parati (Murella) e, prodotti dal diavolo in persona, pentole e coperchi (Inoxpran).
Fu anche l’ultimo decennio vero della monomarca ciclistica prima del ritorno negli anni Dieci: in Italia con lo squadrone Bianchi e l’Atala diretta da Franco Cribiori, all’estero con un’epopea che parve, in quel frangente, infinita.
La TI-Raleigh di Peter Post e la Peugeot contraddistinsero, come nessun’altra squadra, l’immaginario collettivo: quando, dalla metà degli Ottanta, queste sigle scomparvero dalle maglie, fu la fine di un’epoca.
Merito anche dell’estetica essenziale di quel ciclismo, permessa dal disimpegno cromatico dello sponsor unico o quasi: una situazione stridente rispetto alla lenzuolata di scritte, degne della tremenda scheda elettorale del bipartitismo italico, dei Novanta.
I pantaloncini rigorosamente neri, vivaddio non ancora da peripatetica daltonica come negli anni successivi, e i colori inconfondibili delle divise: indossati dagli Style Council nella clip di My Ever Changing Moods, o beatificati dal genio futurista dei Kraftwerk, divennero pop.
Il rossogiallonero, da corsari d’assalto, di Jan Raas e compagni. Gli scacchi neri su sfondo bianco, meravigliosamente escheriano, della Peugeot da Tom Simpson a Phil Anderson. Il giallo e nero Renault, che sopravvisse anche al cambio di ragione sociale, diventando la seconda pelle del gruppo Guimard-Fignon.
I richiami a Piet Mondrian del completo de La Vie Claire e il biancoceleste neoclassico della Bianchi-Piaggio; le strisce rosse verticali della Famcucine, eredità della gloriosa Carpano, e l’inappuntabile contrasto simmetrico rossoblù sul bianco candido della prima GiS.
Il secondo lustro del decennio vide l’esordio dei pezzi da novanta del mercato: profetico fu lo sbarco della Panasonic, che rilevò la Raleigh, e quello della Toshiba, che si accaparrò i resti dell’accolita di Bernard Tapie.
E allora fu anche Pdm, Hitachi, Weinmann, in una progressione (di denaro e attenzioni) che condurrà al boom economico dei Novanta: l’Italia, prima di rientrare al centro della scena internazionale qualche stagione dopo, rimase al palo o quasi.
L’esempio tricolore più innovativo rimase la Carrera dei fratelli Tacchella, che impose con i propri campioni un’immagine post-moderna del ciclismo: da Roberto Visentini a Marco Pantani, i jeans non furono più gli stessi.
Il quinto potere, a dispetto di una tradizione specifica (s)travolgente del quarto, guadagnò sul campo il ruolo (decisivo) di deus ex machina del mondo pedalato.
In un periodo legato ferocemente al carrozzone dei soliti noti, la prosopopea fu a senso unico: cantore indiscusso del moserismo, Adriano De Zan fu figura centrale nella narrazione di eventi che debordarono talvolta nel verosimile.
Uomo di grande cultura, politicamente abilissimo in quella Rai, fu il Luigi XIV delle telecronache: il Re Sole che imbastì il teatrino, un po’ Living Theatre, dei palchi ripresi per minuti con gente impegnata a chiacchierare d’altro. Le sequenze di capitani d’industria e assessori intervistati dal nostro confluirono in un cabaret: inevitabile, si diffuse dunque l’usanza non scritta dell’inquadratura a cottimo, nella consapevolezza (televisiva) che apparire significa essere. Il principe del microfono benedì molti luoghi comuni che divennero, grazie anche a una timbrica radiofonica ineccepibile, tavole della legge sacra.
Ebbe una spalla fedele nel tranquillo confabulare di Giorgio Martino e un rivale nel motorizzato Giacomo Santini, con il quale imbastì un (involontario?) tango della reciproca antipatia: plateali nel sopportarsi a stento, entrarono nella piccola mitologia catodica le interruzioni ad hoc di Adriano degli interventi dell’altro, così come i minacciati silenzi del Santini.
Le leggende metropolitane sulla tivù al servizio (?) del ciclismo sono infinite: rimarrà comunque degno di Ettore Petrolini quel pomeriggio fiorentino – al Giro di Toscana 1978 – in cui, a causa del ritardo della troupe al Parco delle Cascine, fecero ripetere l’arrivo del vincitore, Giuseppe Perletto, sul traguardo. Nemmeno fossero su un set cinematografico…
Qualsiasi cosa passi sul pianeta Terra, prima sperimenta se stessa nella pedivella agonistica.
SINOSSI
In fuga dagli Sceriffi nasce, nel 2011, da una proposta di Stefano Olivari, editore e fondatore di Indiscreto. Scritto in due mesi, e modificato ad libitum, era già là negli anni Ottanta: bastava viverli senza la prospettiva di un posto comodo, ben remunerato, o da tifoso strillone e fanatico. Il libro ricostruisce la storia di quel ciclismo, in un decennio-chiave per l’evoluzione (globale e tecnica) della disciplina, dall’idea stessa dello sport della bici. Fa dunque a meno della nostalgia da quattro soldi, di un certo immaginario di cartone, smontando tante leggende metropolitane imposte dal quarto e dal quinto potere. Utilizzando un universo ricco di storie come nessun altro in Europa, il ciclismo è il nostro baseball, si raccontano gli eroi, gli antieroi e le maschere di quell’evo della pedivella tricolore (gli sceriffi Moser e Saronni; gli scapigliati Battaglin, Baronchelli, Visentini, Contini), regalando anche un’ampia letteratura dei fuoriclasse dell’epoca (Hinault, Fignon, Kelly, Longo, Sercu), provenienti magari da nazioni esotiche, impensabili nello scenario del grande ciclismo qualche anno prima (Sukhoruchenkov, LeMond, Nakano, Herrera). E illustrando il panorama privilegiato di luoghi (come la foresta di Arenberg, il Colle dell’Izoard, il Palazzone di San Siro) che diventano il teatro delle loro gesta e delle nostre vite.
In fondo, “In fuga dagli Sceriffi” soddisfa una missione possibile quanto ambiziosa: proporre un’opera, sullo sport come vettore culturale, mai scritta prima.
L’AUTORE
Simone Basso, nato nel 1971, ha scritto di sport e cultura per quotidiani (Giornale del Popolo), periodici (American Superbasket e Cycling Pro tra gli altri) e siti web (Indiscreto). Ribaltando nome e cognome, come Enomisossab, si occupa – da anni – di un progetto musicale sulla vocalità.
Prefazione di Herbie Skyes
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