L’improvvisa e giustificata ondata di entusiasmo che ha accompagnato la vittoria di Lorenzo Musetti nel torneo di Amburgo domenica scorsa mi ha riportato alla mente un film in cui mi ero imbattuto anni fa e che è disponibile su Sky on demand: “John McEnroe, l’impero della perfezione”. Il più anomalo e bel prodotto che sia mai stato girato sul tennis e su un tennista. E ho capito perché i due elementi (il successo di Musetti e il film di Julien Faraut del 2018) si sono presentati come connessi al mio cervello: perché Musetti è l’erede (pur essendo destro e non sinistro come Mac) di quella gestualità per certi versi mistica di cui l’americano è stato interprete e che solo in Roger Federer ha trovato terreno fertile dove evolversi.
E non mi riferisco solo all’ormai stantio dibattito sul rovescio ad una mano. Mi sono insomma trovato a dirmi che Lorenzo Musetti sarebbe il primo dopo Mac e Roger e meritare ciò che Gil De Kermadec (tennista, istruttore di tennis, dirigente federale francese nonché co-protagonista del film) fece con Mac: piazzarsi con una cinepresa a bordo campo al Roland Garros e riprenderlo. Allora non era poi un problema insormontabile: oggi, se non fate Netflix o Amazon di cognome, sarebbe impossibile. Non i suoi match o i suoi punti o perlomeno non esclusivamente: ma bensì lui solo, le espressioni del suo volto, i suoi movimenti durante l’esecuzione dei colpi.
Un’inchiesta visiva che travalica i confini dello spettacolo e dello sport che si è ispirata ad un personaggio che, se non fosse stato reale, avrebbe avuto tutti i crismi per essere un fantasma: Etienne-Jules Maray, uno che a cavallo fra Otto e Novecento inventò la cronofotografia (il cinema era di là da venire), a onta del fatto che a Napoli, dove spesso lavorava, veniva soprannominato “Lo scemo di Posillipo”. In sostanza le sue fotografie ravvicinate raccontavano i segreti del movimento umano e pure dei suoi organi interni. Evocando la natura nascosta dell’inquadrato.
De Kermadec ha fatto lo stesso con McEnroe usando un rallenty magistrale. E sarebbe bellissimo se qualcuno provasse a realizzare la stessa operazione con Musetti per poi paragonare le flessuosità dei due atleti, le loro analogie e loro differenze.
Tutto il film è godardiano; gli amanti della nouvelle vague vedendolo andranno in sollucchero. Assistendo ai movimenti rallentati di Mac nell’atto del servizio a qualche cinephile agèe e incallito verranno in mente i 12 minuti di inquadratura senza stacchi via via sempre più ravvicinata di un cucchiaino in una tazzina di caffè all’inizio di “Due o tre cose che so di lei”. Del maestro francese è anche il distico iniziale del film: “Il cinema mente, lo sport no”.
E forse, proprio perché non mente, osservi Mac e scopri qualcosa in più di te stesso. In più “L’impero della perfezione” è l’occasione per vedere la finale parigina dell’84, quella in cui Lendl recuperò a Mac uno svantaggio di due set facendo sprofondare l’americano in un abisso di depressione. Anzi: non per rivedere la finale: ma scoprire come Mac perse quella partita, come cambiò il suo volto, come i suoi colpi persero magia.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.
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