In realtà questa è una recensione delle recensioni. Perché alla miniserie “Beckham” (quattro episodi “tematici” disponibili su Netflix) i più importanti organi di stampa italiani hanno dedicato fior di analisi: assai più di altre serie di ispirazione sportiva o parasportiva che popolano le home page dei servizi streaming. La domanda è: perché? Forse “Beckham” naviga lungo un’orbita mai raggiunta dalle docufilm sportive? Ci sono interventi di personaggi che fino ad oggi avevano tenuto la bocca chiusa in merito alla carriera e al business di Becks? La regia brilla per assoluta inventiva? A dire il vero no. Sono presenti dei retroscena di cui non si era a conoscenza? A parte il fatto che, per sua stessa ammissione, David libera i portacandela dai resti della cera perché è un maniaco dell’ordine e non sopporta di entrare in cucina al mattino e trovarci tazze in disordine, non c’è traccia di rivelazioni tonitruanti. È un racconto: costruito benissimo, certo: ma non differente, nella struttura, da altri che si sono vistI in precedenza e senza quelle invenzioni di regìa che rendono un prodotto diverso da un altro.
Dunque perché tanta attenzione nei confronti della serie di Netflix? La risposta c’è: agli occhi soprattutto di chi non segue con una certa frequenza come lo sport viene raccontato in tv è l’occasione in cui una figurina diventa umana. Un novello Pinocchio, insomma. Scopriamo che il tempo è passato anche per colui (ha 47 anni), quello che dopo l’espulsione contro l’Argentina a Francia ’98 venne soprannominato lo “stupid Spice” a causa del falletto di reazione contro Simeone che gli costò l’espulsione; che ora David parla adagio e che il suo volto sogghignante, quando è inquadrato in primo piano, è eguale a quello della maschera di Guy Fawkes, colui che ha ispirato il protagonista di “V per Vendetta”; che Victoria Adams sa anche sorridere e non porta sempre occhialoni coprivolto. Chi guarda scopre non si emoziona tanto perché ri-apprezza i due calci d’angolo che permisero allo United di battere il Bayern nel recupero della finale Champions del ’99 quanto per lo sguardo sui meccanismi che hanno fatto di lui la punta di diamante di un sistema sport-business che con lui e Victoria ha trovato un apice raggiunto in passato solo da esempi come Joe Di Maggio-Marilyn Monroe. E forse non si è mai ripetuto dopo.
La sensazione è che “Beckham” non sia il bilancio di una parabola mediatica, calcistica e imprenditoriale unica quanto il punto dipartenza di una pagina nuova. Meno male, si potrebbe chiosare, che ora la storia dello United, di Cantona, e dei ragazzi di Ferguson è stata raccontata in tutti i modi e le serie possibili: così si può girare pagina perché l’argomento è stato, per così dire, sviscerato. Forse all’eccesso.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Ha pubblicato a giugno 2023 il libro “Chi ha rapito Roger Federer?” (Absolutely Free).
Collabora con il quotidiano Domani, cura per Sport in Media la rubrica “La Nuca di McKinley” e durante i Mondiali di calcio 2022 ha realizzato la video-rubrica “Qatarinfrangenze“.
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