Nel calcio moderno, la formazione giovanile è molto più di una missione sportiva: è un settore industriale che muove centinaia di milioni di euro l’anno.
Le accademie sono incubatrici di talento, ma rappresentano anche investimenti ingenti, strumenti di fidelizzazione e branding.
Eppure, dietro i campi curati e i sogni di gloria si nasconde una realtà scomoda: la quasi totalità dei ragazzi che entra in un vivaio non diventerà mai un professionista.
È da questa consapevolezza che è nato l’Eagles’ Nest Aftercare Hub, il progetto lanciato dal Crystal Palace per accompagnare i giovani esclusi dall’accademia verso un futuro alternativo, dentro o fuori dal calcio.
Un’iniziativa che fonde responsabilità sociale, welfare sportivo e visione strategica — e che potrebbe ispirare anche il sistema italiano.
Vediamo di capirci qualcosa di più.

Le sfide che i giovani calciatori affrontano alla fine dell’accademia
Il dato oggettivo da cui partire è che, appunto, non tutti (anzi solo una piccolissima parte) i giovani calciatori che aspirano ad una carriera nel professionismo riescono a realizzare il proprio sogno.
Le probabilità di “sfondare” sono basse: molti vengono rilasciati o se ne vanno prima di poter raggiungere un contratto importante.
Si tratta di atleti che hanno dedicato gran parte della propria adolescenza a questo obiettivo e vederlo naufragare può creare non poche ripercussioni dal punto di vista emotivo. Lasciare il calcio non è solo perdere un’opportunità professionale, è anche perdere una comunità, una routine, un’identità.
Talvolta l’attenzione nel settore giovanile e/o nelle accademie calcistiche è talmente concentrata sullo sviluppo sportivo da trascurare l’istruzione, le competenze extra-sportive, i piani B. Quando un ragazzo viene rilasciato, può non sapere quali sono le sue opzioni al di fuori del campo.
Anche nei club con buone accademie, non tutti hanno qualcuno che monitora o aiuta i ragazzi dopo che il contratto giovanile termina. L’abbandono può essere anche silenzioso, con poco contatto, poca guida.

Una “seconda casa” per chi non ce l’ha fatta
Ecco allora l’idea che arriva dall’Inghilterra, dove, da qualche anno, il Crystal Palace, club che ha sede nei dintorni di Londra e milita in Premier, ha lanciato un modello innovativo.
La proposta è quella di offrire un pacchetto di supporto triennale a quei giovani che non proseguono con la squadra professionistica dopo la fase di sviluppo (“Professional Development Phase”, normalmente tra i 17 e i 21 anni).
Il supporto è esteso, non solo tecnico: include orientamento verso nuovi club, aiuto nel trovare programmi di istruzione o formazione, inserimenti lavorativi, ma anche l’assistenza psicologica e la gestione del disagio emotivo e identitario che la fine prematura dei sogni da professionista può causare.
Il progetto è strutturato su 3 anni, a dimostrazione che il club ritiene il processo di “uscita” dall’accademia non un momento istantaneo, ma qualcosa che può richiedere tempo per metabolizzare, pianificare un nuovo percorso e reinserirsi.
C’è un “Player Care Officer”, figura dedicata che resta in contatto con i giocatori rilasciati, seguendoli, consigliandoli, aiutando nella ricollocazione.
L’Eagles’ Nest è il primo centro permanente nel Regno Unito pensato per gli ex giocatori del vivaio che non proseguono la carriera professionistica.
L’idea è semplice ma rivoluzionaria: non lasciare indietro nessuno, anche quando il sogno da professionista finisce.

Dall’etica al business: un investimento nel capitale umano
Il progetto del Crystal Palace nasce da una visione ampia del ruolo dei club: non solo società sportive, ma organizzazioni educative e comunitarie.
Dietro la retorica della “cura dei giovani” c’è anche una chiara logica di ritorno economico e reputazionale:
- Brand value – un club che tutela i propri giovani migliora la propria immagine e attrae sponsor sensibili ai temi ESG (Environmental, Social, Governance – sostenibilità, ambientale, sociale e di qualità di governo dell’impresa).
- Employer reputation – rafforza la fiducia delle famiglie e dei giocatori nel progetto formativo.
- Networking e alumni – crea un ecosistema di ex tesserati che possono rientrare nel club come allenatori, osservatori o ambasciatori.
- Responsabilità sociale – riduce i costi indiretti legati a disagio, abbandono scolastico o isolamento psicologico.
L’Eagles’ Nest, quindi, non è un costo, ma è visto come un investimento sostenibile nel capitale umano, che unisce welfare e business.
Il problema nascosto del calcio giovanile
Ogni anno migliaia di ragazzi entrano nei settori giovanili dei club europei, ma pochissimi arrivano alla prima squadra.
Le accademie selezionano i migliori, ma il sistema, come detto, non prevede un piano B strutturato per chi viene escluso.
Ecco qualche numero:
| Paese | Giovani tesserati nei vivai professionistici | Percentuale che firma un contratto pro | Investimento medio annuo stimato | Esistono programmi post-accademia? |
| Inghilterra | ~12.000 | <1% | ≈ 200 milioni € | Sì (Crystal Palace, PFA, EFL Trust) |
| Italia | ~10.500 | 0,8% | ≈ 150 milioni € | No (solo iniziative locali o private) |
| Francia | ~14.000 | 1,2% | ≈ 180 milioni € | Parziali (INSEP, LFP Academy Support) |
| Germania | ~15.000 | 1,5% | ≈ 220 milioni € | Sì (DFB Nachwuchsprogramme) |
Fonti: FIGC, Premier League Youth Development Report, UEFA Technical Centre, ECA Youth Survey 2024.
Italia: una lacuna ancora aperta
Nel nostro Paese, il sistema dei vivai resta fortemente orientato alla selezione, non all’accompagnamento.
Solo poche realtà — come Atalanta, Empoli, Torino o Sassuolo — offrono programmi educativi integrati, ma nessun club italiano ha ancora sviluppato un progetto post-accademia strutturato.
Eppure, il contesto sarebbe fertile dal momento che la FIGC stima come circa 9.000 ragazzi lascino ogni anno i settori giovanili senza prospettive sportive. Solo il 27% di essi prosegue poi gli studi universitari o professionali. E gli altri?
Le accademie dei club di Serie A e B — pur avendo fatto passi avanti nella formazione educativa — raramente offrono programmi di reinserimento a chi viene scartato.
Il calcio giovanile italiano continua a vivere in una logica “selezionatoria”: chi non supera l’asticella, semplicemente sparisce dai radar.
Eppure, i numeri raccontano appunto che ogni anno migliaia di ragazzi lasciano i vivai senza un piano B.
Nel 2023 il Ministero dello Sport italiano ha rilanciato il programma “Dual Career”, volto a promuovere la formazione parallela tra carriera sportiva e percorso di studi o lavoro. Una cosa un po’ diversa, ma comunque un’utile iniziativa.
L’obiettivo è sostenere gli atleti, soprattutto giovani e semi-professionisti, nel costruire competenze spendibili anche fuori dal campo, evitando così i rischi legati all’abbandono sportivo o all’interruzione prematura della carriera.
Il progetto, sviluppato in collaborazione con il CONI, le Federazioni e diverse università italiane, prevede percorsi personalizzati di studio, borse di sostegno, tutoring e accompagnamento psicologico.
Tra i partner figurano atenei come il Foro Italico di Roma, l’Università di Verona e il Politecnico di Torino, che hanno avviato corsi flessibili dedicati agli atleti.

Un modello replicabile anche in Serie A
Il modello Dual Career, se integrato con iniziative come l’Eagles’ Nest, può rappresentare un passo decisivo verso un sistema di welfare sportivo moderno, in cui l’identità dell’atleta non si esaurisce nella prestazione ma si evolve in una prospettiva di vita completa.
L’Eagles’ Nest potrebbe diventare un modello esportabile anche nel calcio italiano, magari con formule adattate:
- Partnership pubblico-private con università, enti di formazione e aziende.
- Programmi di mentoring gestiti da ex calciatori e staff tecnici.
- Incentivi fiscali o fondi federali per chi sviluppa progetti di reinserimento.
- Piattaforme digitali di orientamento, per tracciare e assistere i giovani usciti dai vivai.
Sarebbe un passo avanti non solo in termini sociali, ma anche di sostenibilità reputazionale e competitiva per i club italiani, sempre più attenti ai criteri ESG richiesti da UEFA e sponsor internazionali.
Conclusione
Il Crystal Palace, con il suo Eagles’ Nest Aftercare Hub, ha acceso una luce su un tema che il calcio preferisce spesso ignorare: che fine fanno i ragazzi che non ce l’hanno fatta?
In un’industria da miliardi, investire su chi resta indietro non è carità, è intelligenza organizzativa.
Un calcio che si definisce moderno e sostenibile non può più permettersi di guardare solo ai campioni: deve prendersi cura anche di chi, pur non arrivando al professionismo, resta parte della sua storia.
Ricordiamo quanto fa l’NBA con il proprio programma “Care”, di cui abbiamo parlato in una vecchia puntata di questa rubrica, dove la Lega, tramite e su spinta del “sindacato” dei giocatori si è presa in carico proprio il destino post carriera degli atleti.
Qui si tratterebbe di anticipare questa tutela anche a chi a rincorso un sogno, ma non ce l’ha fatta.
Sarebbe un bel passo avanti.
Matteo Zaccaria | Coltiva la passione per tutti gli sport (tranne il cricket, che rimane un mistero), ma non ne pratica neanche uno (!). Avvocato vicentino, ma non “magna gati”. Appassionato del racconto sportivo in tutte le sue forme. Ritiene che se ti svegli nel cuore della notte per guardare una finale NBA, o hai una passione, o un problema, oppure entrambe le cose!
“Mi piace guardare lo sport in Tv. Contrariamente ai film non sai mai come va a finire” (Michael Douglas).





