Difficile trovare un dibattito che si sia prolungato nel tempo più del seguente: il ruolo del servizio pubblico. Se ne discute praticamente dal dopoguerra, la storia ci dice che la Rai ha forgiato (o almeno ci ha provato) un linguaggio e un sentore nazionale più di chiunque altro. La Rai di Bernabei, ad esempio, ha avuto la doppia funzione di mamma e maestra in un’Italia e in un panorama dei media che oggi non c’è più. Ma di questi tempi il dibattito potrebbe riprendere piede specie quando si tratta di sport.
Esempio: di fronte all’impresa titanica di Nadal a Melbourne, in una domenica di gennaio dove tutti abbiamo tirato il fiato dopo l’abbuffata di parole dedicate all’elezione del Presidente della Repubblica e prima della sanremasca abbuffata di parole e note, come dovrebbe comportarsi un servizio pubblico? Inserire la notizia nei TG? Certo, l’hanno fatto e avrei voluto vedere il contrario. Ma perché non ipotizzare che davanti ad un’impresa sportiva destinata a far discutere anche fra molti anni (la paragoniamo a Beamon che a Città del Messico fa 8.90 nel lungo? A Messner che ai tempi suoi scala tutti gli 8000 senza bombole?) chi si occupa di servizio pubblico s’inventi (al volo, non dopo giorni) un approfondimento degno di tal nome, magari pure in un orario decente?
Parliamo sempre di televisione, ovvio: dunque nessuno può essere così pazzo dal pensare di inventare una sorta di “Apostrophe” dello sport (il coltissimo e blasè programma di cultura di Antenne 2 che ha chiuso la sua parabola nel ’90): ma i linguaggi si sono evoluti, per mettere in piedi uno speciale in cui si racconta e si conduce al cuore di un atleta non ci vuole poi molto. E’ obbligatoria, questa sì, la volontà di farlo. Sottraendosi al concetto “e’-un-evento-di-cui-non-abbiamo-i diritti” e rispettando invece appieno la natura (arieccolo) di servizio pubblico.
Con “Sfide” Rai aveva occupato, allora in modo esclusivo o quasi, il settore dello storytelling scoprendo che con il racconto si conquistava anche ascolto. Ora non sarebbe forse il caso di provare a percorrere una coraggiosissima via alternativa che si separi della criscitellitudine imperante (non in Rai, per carità) e della leleadanitudine e consimili (che invece in Rai è presente) almeno in uno spazio dedicato, dove si scopre che si può approfondire e indagare anche nello sport senza per questo essere pressapochisti o noiosi?
Non è questo che dovrebbe fare il servizio pubblico? Ma come si chiede opportunamente Massimo Bernardini nella prefazione del bel libro “In nome del popolo televisivo” (Vallecchi): la televisione come servizio pubblico ci interessa ancora?
Arrivano le Olimpiadi di Pechino: stiamo a vedere se qualcosa salta fuori.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.