Una svista, come quella del chitarrista di Ivan Graziani, ma tanto basta di questi tempi. Mercoledì sera Alberto Rimedio ha dedicato l’inizio del secondo tempo di Belgio-Canada a scusarsi per aver impropriamente usato il termine “razza” invece che “nazionalità” in riferimento al melting pot della squadra arbitrale (in realtà, a cose fatte, il termine più giusto sembrava “inadeguata”). Lo ha fatto perché avvisato della canea montante sui social, un mondo parallelo in cui si è pronti a spianare il fucile sull’incauto di turno. Senziente o meno che sia. Rimedio fa parte del secondo schieramento, perché è parso a tutti che si sia trattato di lapsus. In un mondo che vive di parole, non si ha la certezza dell’infallibilità. Qualcosa scappa. E lì è scappato.
Non è invece casuale la reazione degli indignati in servizio permanente effettivo. Di chi ha visto un tic involontario alla dottor Stranamore, frutto dei tempi (politici) che stiamo vivendo. Le parole sono importanti, certo, però nel senso del Nanni Moretti di Palombella rossa. Perché il linguaggio deve essere diretto, lineare, chiaro. Senza infingimenti e senza ricerca di secondi fini, come invece amiamo fare. Ultimo (non) esempio in materia, la richiesta di Giorgia Meloni di essere chiamata il presidente del consiglio, con conseguente apertura del dibattito su femminismo, maschilismo e via dicendo. Senza dimenticare gli * al posto della vocale finale, la battaglia sullo/a schwa (che fine ha fatto, a proposito?), l’esprimersi in maniera politicamente corretta. Boris 4 lo ha trasformato in giusto tormentone, con Biascica che mette la u alla fine delle parole perché non ci capisce più nulla. E corre un brivido lungo la schiena al pensiero – nel bene come nel male – se i Monthy Python si fossero formati qualche decennio dopo.
Leo Lombardi