Ci sono almeno un paio di buoni motivi per vedere “Gianni Agnelli – In arte l’Avvocato”, il docufilm di 1h40’ passato su Rai 3 venerdì scorso e disponibile ora su RaiPlay. Il primo si chiama Michel Platini. L’effetto della sua comparsa, soprattutto nelle prime inquadrature, è straniante. Perché di colpo, è come se il tifoso juventino (ma non solo) che aveva adorato le Roi Michel quando questi giocava in bianconero e che poi ne aveva anche visivamente perso un po’ le tracce, se lo ritrovasse di fronte con lo stesso sorriso sfottente e sardonico, lo stesso capello disordinato e insolente che aveva allora. Un po’ come se il tempo non fosse passato da allora: e invece ne è scivolato via tanto, Platini ha attraversato vicissitudini da dirigente calcistico planetario e pure giudiziarie. Eppure mentre racconta che davvero l’Avvocato lo chiamava alle sei del mattino (non alle cinque come affermava la vulgata) sembra l’evoluzione naturale del giocatore che fu: come se l’imbolsito dirigente Uefa che voleva diventare il re del calcio mondiale non fosse mai esistito.
L’altro motivo è che la presenza di John, Lapo e Ginevra Elkann in qualità di soggetti narranti alza il sipario su personaggi destinati per loro natura a essere o essere stati figurine: nomi associati a volti protagonisti di qualche intervista rapida oppure eccessivamente preparata e per questo assai meno penetrante. Il Lapo che fa cenno serenamente ai suoi errori, perfino John che racconta di quando, da bambino, di nascosto andava in garage ad accendere la Ferrari per sentire il rumore del motore sono racconti di persone normali. E la normalità è stata sempre l’unica caratteristica che di cui la Famiglia Agnelli non era in possesso.
Poi c’è il giudizio generale sul docufilm: dal quale la figura dell’Avvocato esce come quella di un santo laico o poco ci manca. Ruolo di cui peraltro a Torino è stato spesso accreditato in vita. Non c’è controcanto: l’Avvocato non è mai stato avventato ma coraggioso è la tesi prevalente. Guardando il film è ascoltandone le testimonianze sorge però una domanda: siamo sicuri che lui, dotato certamente di ironia ma anche di autoironia, avrebbe apprezzato che di lui non fosse documentato nemmeno un difetto? O un errore nella gestione di una qualche situazione familiare, personale, sportiva o aziendale? È probabile che sarebbe proprio lui a farsi una risata e a sottolineare che nel ruolo del santo, seppur laico, non si sarebbe trovato mai a suo agio.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Ha pubblicato a giugno 2023 il libro “Chi ha rapito Roger Federer?” (Absolutely Free).
Collabora con il quotidiano Domani, cura per Sport in Media la rubrica “La Nuca di McKinley” e durante i Mondiali di calcio 2022 ha realizzato la video-rubrica “Qatarinfrangenze“.
TUTTE LE PUNTATE DE “LA NUCA DI McKINLEY”
IN MEDIA(S) RES | IL PODCAST SU SPORT&MEDIA