Il momento chiave è uno e uno soltanto: quando Mike (siamo a metà della serie) ha appena avuto violentato Desirèe Washington in una suite d’hotel. Sta parlando con la donna che desidera solo fuggire. E di colpo si gira verso la camera, guarda negli occhi ciascuno di noi e dice sogghignando: adesso non mi vuoi più bene?
Ormai siamo abituati a essere coinvolti dai personaggi delle docuserie i quali escono dal dialogo di scena e si rivolgono a chi sta guardando per trascinarlo nella storia. Lo faceva Oliver Hardy prima di dar vita all’ennesima zuffa con Stan Laurel un secolo fa. In tempi recentissimi giova ricordare John Reilly che interpreta Jeremy Buss in “Winning Time”: il suo è un continuo, sornione, rivolgersi al pubblico. Ma il Mike Tyson interpretato (mirabilmente peraltro) da Trevante Rhodes nella serie “Mike” (otto episodi brevi, sul canale Star di Disney+) quando ci chiede se gli vogliamo ancora bene è un demone che evoca i demoni di chi sta guardando. Nonostante molti negli Stati Uniti abbiano accusato la serie di essere eccessivamente benevola e assolutoria nei confronti di Tyson, impossibile non provare un brivido quando Mike-Trevante ci guarda negli occhi e dice: sono un mostro, ho appena stuprato una ragazza. Ma voi, questo dice quello sguardo, pensate di essere migliori di me?
Intendiamoci la serie non è perfetta. Il duo Steven Rogers-Craig Gillespie (gli stessi che hanno realizzato nel 2017 il film “Tonya”, dedicato alla “mostra” Harding, la Tyson del ghiaccio, la pattinatrice americana che fu giudicata “mandante” di avere inviato dei sicari a distruggere il ginocchio della rivale Nancy Kerrigan alla vigilia dei Giochi di Lillehammer nel ’94) ha posto in essere una struttura narrativa ambiziosa.
Nel 2013 Spike Lee trasformò in film un monologo teatrale di cui Tyson fu protagonista a Broadway intitolato “Mike Tyson: undisputed truth” ne ha fatto la colonna vertebrale della serie. Il Mike di Trevante è su un palco teatrale, è vestito nello stesso modo, gesticola in modo ipnotico alla stessa maniera, tanto che è difficile pensare che quelle stesse mani così comunicative siano le stesse che hanno distrutto i connotati di decine di avversari sul ring, ma la sensazione è che i registi abbiano preso l’esperienza visiva di Spike Lee (che era rivolta soprattutto ad un pubblico di afroamericani) e abbiano voluto renderla più metabolizzabile anche da un pubblico di bianchi.
I limiti della serie (che si apre e si chiude sull’orecchio di Holyfield, ovviamente) stanno soprattutto in un certo manierismo della descrizione del lato oscuro di Mike, nel fatto che la narrazione sia a volte troppo ellittica, passando da una fase all’altra con troppo rapidità. I punti forti sono l’esperimento di fare del teatro il sentiero su cui cammina una serie Tv: e soprattutto quello sguardo di cui sopra e che non può non inquietare. E che evoca in modo potente uno che forse non ha mai dato un cazzotto in vita sua, Fabrizio De Andrè, ma che quando scrisse “Anche se voi vi credete assolti/siete lo stesso coinvolti” parlava ai demoni nascosti di tutti noi, come Il Tyson nella camera d’albergo.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.
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