Il punto forte della miniserie “Il caso Alex Schwazer” (quattro puntate di tre quarti d’ora l’una, disponibile su Netflix) non è la ricostruzione di una delle vicende più nauseanti della storia dello sport contemporaneo, non solo italiana ma mondiale. Il punto in questione è la luce. Che non c’è. O, se preferite, l’oscurità che avvolge tutta la serie. Una scelta stilistica che meriterebbe un riconoscimento importante. Tutta la serie è oscura. Quando la luce c’è (quella che arriva dalle finestre alle spalle di Schwazer che racconta) quella luce non penetra il buio, è come se si fermasse prima di entrare nella stanza che sembra un rifugio di montagna. Un’oscurità che non è solo scelta estetica ma che è la cifra stilistica della miniserie. Tutto è nero perché la storia lo è. Tutto è quasi privo di speranza perché la storia lo è. Nel buio è impossibile trovare la strada se non con un terzo occhio che sia ispirato da intuizioni di origine soprannaturale o quasi. E infatti la serie sposa sì completamente la tesi del complotto ordito dalla Iaaf e dalla Wada per colpire Sandro Donati, reo di aver aperto il vaso di Pandora che conteneva i segreti del doping di Stato in Russia: ma lo fa trasmettendo allo spettatore la certezza che il mondo è comunque nero e che anche chi dentro quel mondo vuole emanare luce ne è quasi inghiottito. Non per nulla perfino Donati è ripreso in penombra, spesso di lui non si distinguono nemmeno i lineamenti del volto, sepolto com’è in una sorta di sottoscala che evoca più un serial killer di Criminal Minds che non un uomo probo che invece vorrebbe vivere nella luce. È nera perfino la montagna imbiancata che fa da sfondo agli spostamenti dei personaggi: dall’ex podista ai commissari della Wada che si presentarono a casa Schwazer il primo gennaio alle sette del mattino.
Un po’ di quel nero entra nell’anima pure di chi guarda, al di là del parere che ciascuno può avere sul personaggio Schwazer. E quindi la miniserie non solo è riuscita ma è pure meritoria.
E poi, e poi. Un appassionato di sport e dei prodotti video che lo sport raccontano potrebbe dire: ma quelle provette contenenti urina, quelle dal tappo quadrato con gli angolo arrotondati abbandonate sulla scrivania di uno studio a Colonia prima di essere trasferite nel laboratorio di analisi dove le ho già viste? Dove ho imparato come possono essere violate e pure con una facilità irrisoria? Mumble mumble, direbbe Topolino. Ma certo: in “Icarus” (vedi) di Bryan Fogel, il fantastico racconto dedicato alla vicenda di Lance Armstrong e al doping di stato in Russia. Se si ripensa a quel racconto ecco che un raggio di luce potente squarcia il buio che avvolge l’opera su Schwazer: in uno c’è la chiave di lettura per capire il secondo. La ricerca giornalistica conta ancora qualcosa, in fondo.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Ha pubblicato a giugno 2023 il libro “Chi ha rapito Roger Federer?” (Absolutely Free).
Collabora con il quotidiano Domani, cura per Sport in Media la rubrica “La Nuca di McKinley” e durante i Mondiali di calcio 2022 ha realizzato la video-rubrica “Qatarinfrangenze“.
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