Chi legge mi scuserà se per una volta “La nuca di McKinley” si occupa di un film che in tv non è ancora disponibile essendo visibile nelle sale in questi giorni. Il film è, quasi ovviamente, “Challengers” di Luca Guadagnino che essendo di ambientazione specificatamente tennistica non poteva sfuggire agli occhi dei critici che si occupano di sport e della sua riproduzione visiva. E difatti (come tutti i film di Guadagnino e tuttissimi i film che mettono piede su campi sportivi) si è rivelato profondamente divisivo. C’è stato chi si è concentrato sulle ascendenze truffautiane (“Jules e Jim”) o bertolucciane (“The dreamers”) e lo ha apprezzato. Chi invece avrebbe, tanto per cambiare, voluto utilizzare la frase-simbolo della saga di Fantozzi che dà il titolo a questa rubrica: quella che il ragioniere pronuncia chiamato sul palco dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli dopo l’ennesima visione forzata della Corazzata Kotiomkin.
In questa sede lo sguardo non può che essere quello di chi ama il cinema ma pure il tennis. E dunque non può non dire che, ancora una volta, il tentativo di rendere sullo schermo questo sport spietato è andato a farsi benedire. Ammantando il film di una certa patina di ridicolaggine che proprio non si riesce a non notare.
Ancora una volta, il tentativo di rendere sullo schermo questo sport spietato è andato a farsi benedire
Esempi? Eccoli. Detto che la rivalità fra i due protagonisti maschi (anche se per Zendaya andrebbe bene ciò che un celebre critico scrisse a proposito della debordante presenza di Nanni Moretti nelle sue opere: Nanni spostati e lasciaci vedere il film) sembra la trasposizione in un altro ambito di quella fra le madame Markos e Blanc del dimenticabilissimo “Suspiria” di qualche anno fa partiamo dal fondo (occhio: spoiler). Quando uno dei due players si catapulta verso la rete e salta sulla medesima per colpire una palla più che un tennista sembra un Manga: una via di mezzo fra Mila, Shiro, Holly, Benij e Jenni la tennista. Non è un gesto atletico, ne è un malriuscita caricatura. Nessuno degli attori aveva confidenza con i gesti del tennis e tutti si sono sottoposti ad un duro lavoro didattico: ma si stravede lo stesso. Nel match che oppone i protagonisti manca solo che i due distorcano la bocca e poi potrebbe benissimo essere un manga. C’è una esagerata accentuazione della violenza nell’esecuzione del colpo e soprattutto manca qualunque tattica: uno sposta l’altro da un lato all’altro del campo come fosse un allenamento di cardiotennis, una di qua una di là, senza criterio. Se una partita si giocasse veramente così sarebbe la morte dello spettacolo tennistico. Mai un contropiede, una palla corta: solo bum-bum-bum. Va bene che è tutto il film è molto tennis-America, ma così la caricatura diventa a tratti insopportabile. Tutti spaccano racchette come dei Paolo Canè ragazzini: la figura del tennista di livello Challenger esce come quella di una specie di neuropatico da internare. Le esecuzioni dei colpi sono talmente accentuate che lo spettatore, quando la ripresa è frontale, è tentato di scansarsi perché quella palla, colpita davvero così, partirebbe dritta come un fuso e colpirebbe il medesimo in mezzo agli occhi. Quando Zendaya è in mezzo al campo e allena il suo compagno di quel momento, nella classica posizione del maestro con a fianco il cesto di palle, scucchiaia le medesime col braccio rigido più o meno come un ragazzino alle prime armi inducendo più di uno a pensare che sarebbe lei a dover prendere qualche lezione. Le riprese di gioco (tante, è questo il problema) fanno venire il mal di mare. Dato che molti dei colpi scagliati dall’uno o dall’altro se ripresi in modo panoramico sarebbero stati improponibili perché la palla sarebbe finita ovunque meno che sul campo, il regista ha montato le sequenze in modo da tentare di trasmettere solo il pathos senza impatti della pallina sul terreno. Anzi proponendo spesso una sorta di soggettiva della pallina (poveretta) che fionda lo spettatore in una dimensione onirica che però sarebbe meglio definire lisergica. Il mondo rotea e il mal di stomaco avanza.
Challengers è un film ambientato nel tennis (riprese anche a Flushing Meadows), ma rivolto a chi di tennis giocato sa molto poco. Certo la questione è spinosa: o usi delle controfigure del livello in cui le partite sono ambientate oppure il rischio è sempre quello di far sorridere o ridere. Il fatto è che pure la storia (ma Brad Gilbert che consigli ha dato a Guadagnino?) alla fine, pure con i sottosignificati del caso, funziona come quello smash finale: è qui bisognerebbe tornare a Guidobaldo Maria Riccardelli ma non è il caso.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Ha pubblicato a giugno 2023 il libro “Chi ha rapito Roger Federer?” (Absolutely Free).
Collabora con il quotidiano Domani, cura per Sport in Media la rubrica “La Nuca di McKinley” e durante i Mondiali di calcio 2022 ha realizzato la video-rubrica “Qatarinfrangenze“.
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