14 PEAKS – NOTHING IS IMPOSSIBLE
Tamara Lunger è un’alpinista di Bolzano. Una super-alpinista. Nel 2010 è stata la più giovane di sempre a raggiungere la vetta del Lhotse, uno degli ottomila himalayani. Ha pure salvato la vita ad un altro grande, Simone Moro, che era caduto in un crepaccio a 5500 sul Gasherbrum. Di Tamara si è parlato la settimana scorsa perché ha interrotto un tour durante il quale voleva scalare tutti tremila spagnoli non a causa di un infortunio; ma semplicemente perché le si è spenta la luce. Ha ammesso di non farcela più perché sull’anima e sulle gambe le pesa il ricordo dei cinque compagni di scalata che hanno perso la vita sul K2 nel febbraio scorso.
Questo è l’alpinismo e lo sa bene sia chi si cimenta con le tremende cime più alte del mondo sia chi è un semplice escursionista. Ma guardando “14 Peaks – Nothing is impossible” (Disponibile su Netflix, 1h41) si ricava una sensazione pericolosamente opposta.
La storia è quella dell’alpinista nepalese Nimsdal Purja che sia per riscatto personale, sia per riscatto di quella silente e spesso nascosta categoria di uomini di montagna, gli sherpa nepalesi (coloro che con il loro lavoro da sempre rendono possibili le spedizioni degli appassionati dei paesi ricchi) decide di intraprendere una mission impossible da record: scalare tutti gli ottomila (14) in sette mesi. Normalmente il tempo che ci vuole per organizzare la spedizione su una cima soltanto.
Ciò che interessa in questa sede non è l’esito finale dell’impresa, quanto il messaggio che da poco meno di due ore di docufilm emerge: 14 OTTOMILA IN SETTE MESI? Inutile girarci intorno: scompare quasi completamente il senso del limite, della follia (magari non luicidissima) che ci vuole per tentare un’impresa del genere. Per capirci: scalare 15 ottomila non vuole dire salire e scendere dalla “Tower of terror” di Disenyworld, quell’attrazione in cui si cade nel vuoto da trenta metri, a metà scattano una foto e i cascanti hanno i capelli dritti anche qualora siano calvi. Certo: facile dire che sarebbe stato facile creare, su tale impresa, una docuserie di almeno tre puntate. Probabilmente più tempo avrebbe permesso ai creatori di eliminare l’effetto-Disneyworld e dare spazio alla reale essenza (drammatica) delle ascensioni, ai rischi pazzeschi, all’immane sforzo fisico che ci vuole anche solo per pensarla, una cosa del genere. Ma il docufilm in versione unica non solo non supera il rischio di apparire come una celebrazione superomistica dell’assenza di limiti nel luogo del mondo dove invece i confini dell’attività umana sono più evidenti: ma se ne compiace.
Il risultato ultimo è la creazione di una sorta di Tomb Raider in versione himalayana dove il novello Laro Croft passa dall’Annapurna all’Everest con la stessa agilità e nonchalanche (tipiche di uno videogame, dove alla fine una scappatoia c’è sempre) con cui un modesto sciatore di pista decide di scendere sulla rossa invece che sulla nera perché gli scarponi iniziano a fargli male.
Un esempio su tutti: il prode Purja (che è umano pure lui) durante una discesa, presa un po’ sottogamba, scivola. E dato che non si tratta di un toboga all’Acquafan di Riccione ma di un pendio himalayano rischia la pelle. Allora (evento reso in forma di cartoon) cerca un modo per frenare e al suo fianco compare una corda, lasciata lì durante un’ascensione da chissà quale cordata. Il nostro vi si aggrappa, si salva e, novello Gladiatore, commenta: un giorno la mia vita finirà. Ma non oggi.
Gli ottomila come Mirabilandia? No, grazie.
POST SCRIPTUM | Appena nata la rubrica intitolata alla fantozziana NUCA DI McKINLEY dovrebbe già essere ribattezzata, almeno dopo quanto successo in Napoli-Empoli. Il gol di Cutrone, realizzato per l’appunto, con un retro-colpo di nuca probabilmente unico nella storia, è l’esempio di come la realtà, a volte, non ci stia a farsi surclassare da tv, social e cinema; ma reclami un posto al tavolo dei grandi.
Non se ne abbia male tuttavia, il buon Cutrone ma in questa sede resteremo fedeli alla nuca di McKinley, così intoccabile, così extra temporale e fatta, e diciamolo, della stessa materia dei sogni.
Piero Valesio
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.