Il record di Steph Curry (2977 triple, superato Ray Allen, disponibile su Sky Sport on demand, da vedere prima o dopo lo speciale “King of Threes”, sempre Sky) ha rappresentato una ghiottissima occasione per riflettere su un personaggio strano, sempre presente nelle telecronache sportive: l’urlo. Tutti i telecronisti, chi più che chi meno, urlano. Vengono adeguatamente educati (da ex-ducere) a farlo. I telecronisti Sky di calcio, ad esempio, hanno interiorizzato lo stesso andamento sonoro: non solo (come tutti) già iniziano le telecronache tenendo un tono di un’ottava superiore a quello che avrebbero conversando a tavola con i propri amici del cuore; ma poi salgono ancora quando il gioco raggiunge il climax scandendo le parole (o il nome del giocatore) quando arriva il gol-orgasmo. L’unico a non rispettare del tutto questa regola conservando le proprie radici che affondano in una stile antico, è Antonio Nucera: il quale dà ogni volta la sensazione (non sgradevole, peraltro) di non potere proprio alzare il tono più di così, di non riuscire a enfatizzare qualsivoglia passaggio di gioco più di tanto. Una mosca bianca.
Assistere al record di Curry e allo speciale che ne celebra le gesta ha però riportato tutti (incredibile!) alla verità delle cose. Ovvero: l’urlo non ha senso sempre. Siamo sommersi dalle urla sportive (ahinoi non solo): e se è vero che meno polpa si ha a disposizione e meglio bisogna cucinarla e impiattarla per poterla vendere, è altrettanto vero che a forza di urlare sempre il prodotto si svaluta e perde appeal. Per dire: dai programmi che abbiamo citato sono emerse due verità. 1) quando Curry ha segnato la tripla che lo ha consegnato agli storyteller del futuro, il telecronista Flavio Tranquiillo e il suo partner Davide Pessina sono andati del tutto controcorrente salutando il traguardo con un semplice: “Ce l’abbiamo fatta!” il cui senso, poi esplicitato era: da adesso in poi possiamo parlare d’altro. Scelta coraggiosa e condivisibile: che bisogno ci sarebbe stato di urlare? Uno champagne d’eccellenza mica pianifica campagne pubblicitarie. 2) Le urla, queste invece piene di significato, Tranquillo &Co. le hanno riservate, nel corso del tempo, a imprese davvero pazzesche dell’asso di San Francisco: salutando quei tiri che di fatto hanno modificato il DNA del basket con eccessi vocali liberatori, trascinanti, gioiosi, originati dalla bellezza. In occasione di una di queste esecuzioni fenomenali il partner dei Tranquillo ha detto: “Ma che parliamo a fare? Mettiamo Morricone e andiamo a casa”. Qui l’urlo non è marketing ma gioia. Ed è quell’urlo che coinvolge chi guarda, che per una volta, non gli fa provare la sensazione di essere di fronte a qualcuno che vuole vendergli qualcosa.
Il “New York Times”, in un ottimo pezzo uscito qualche giorno fa, ha affermato che Curry è asceso anche lui al ruolo di esperienza religiosa, titolo fino ad oggi riservato a Roger Federer. Per tali pontefici si può urlare, perché danno gioia. Per gli altri, non se ne abbiano a male, se ne può anche fare a meno.
Piero Valesio
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.