Guardare “Icarus” in tempi di guerra russo-ucraina è come leggere Lolita a Teheran. Cioè concedersi qualcosa di sotterraneo, immergersi in un ieri che rende più chiaro l’oggi e lancia fasci di luce (oddio) sul domani.
Per chi ancora non lo sapesse: “Icarus” è il documentario (che bello quando si può utilizzare con ragione questa parola) vincitore dell’Oscar nel 2018 e che portò alla luce lo scandalo del doping di stato in Russia. È disponibile su Netflix e la visione ancora oggi, quando l’esclusione degli atleti russi dai Giochi Olimpici seguita a quelle rivelazioni volge al termine (i provvedimenti post-invasione dell’Ucraina sono un’altra questione) è un pugno nello stomaco.
La domanda che sorge è una sola: era possibile, prendendo atto di un’operazione truffaldina così colossale eseguita su un terreno, quello dello sport, che rappresenta l’unico linguaggio globale del nostro pianeta, intuire che chi era stato capace di tanto avrebbe trasportato anche quell’atteggiamento anche in ambito militare e politico? Non che chiunque traffichi in provette di urina e si renda protagonista di frodi sportive poi arrivi a invadere un altro Paese con i carriarmati, se no un po’ in tutto il mondo (compresa casa nostra) saremmo in guerra costante ad anni. Più o meno come chi ascolta Wagner non invade poi la Polonia (Woody Allen cit.). E nemmeno mancavano le prove che i russi erano pronti a impegnarsi militarmente in ogni dove e in breve tempo.
Ma la visione a posteriori di Icarus con Grigory Rodchenkov (il grande capo del laboratorio antidoping russo) che racconta come gli emuli del Kgb a Sochi avessero pronte provette con urina pulita di TUTTI i loro atleti in gara ai Giochi invernali, pronte a sostituire, tra l’altro tramite un buco nel muro del laboratorio, quelle reali e che avrebbero rilevato tracce di doping, qualche dubbio in merito lo suscita. Il faccione di Putin (che tutto ovviamente sapeva e approvava) spunta ovunque del docufilm, come erba fra le pietre autobloccanti di un vialetto. Da Icarus fuoriesce un odore acre di sporco e falso che se, quattro anni fa, lasciava spazio alla speranza (dopo uno schifo del genere non vuoi forse che le cose migliorino?) oggi appare ai sensi, olfatto compreso, come una sinistra anticipazione di manovre ben peggiori.
Guardatelo dopo aver seguito un qualunque talk show sulla guerra: capirete perché quel puzzo non ne vuol sapere di sparire.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.