Conta più la partita o ciò che succede nello stadio dopo il fischio finale? Onde evitare che l’estensore di questa rubrica sia fatto oggetto di ricovero coatto in una struttura psichiatrica va detto che, certo, la partita “E’” l’evento e tutto il resto le fa da contorno.
Però, però. Prendete Sampdoria-Genoa di sabato scorso. Il derby più colorato e più britannico d’Italia. Partita che in realtà era uno spareggio: chi vince resta in A, chi perde sprofonda in B. In questo caso gli ultimissimi minuti del match e soprattutto ciò che è successo dopo, hanno oscurato (si fa per dire) i novanta minuti precedenti. Breve sintesi: il Genoa perde 0-1, l’arbitro concede un rigore, sul dischetto va Mimmo Criscito che per i rossoblu è giocatore simbolo, tira il rigore sotto la Nord, lo sbaglia, crolla, si scioglie in un pianto senza fine. E dopo il fischio finale continua a piangere, Audero (che ha parato il rigore) lo consola, la Sud doriana delira con Candreva in mutande e il figlio in braccio, i blucerchiati ballano senza tregua davanti alla curva, i genoani si schierano sotto la Nord ancora affollata, silenti, immobili. Per dieci minuti almeno. Brividi. Eros e Thanatos. Il tecnico genoano Blessin resta in panchina per un’ora. Guarda il campo, parla con il suo team, sembra una versione suonata di Tuchel. Colori, odori, festa, dolore. Uno spettatore, di parte o equidistante, cosa potrebbe volere di più?
Peccato che questo show naturale, spontaneo, imperdibile, nella diretta DAZN sia stato osteggiato dalle mille parole della pletora di telecronisti, commentatori etc etc, nonché da blocchi pubblicitari immanenti come il Patreterno del catechismo di Pio V, che con la sua barba bianca scagliava fulmini sui peccatori. La domanda viene spontanea. Ma perché? Perché rovinare uno spettacolo così vero e imperdibile? Nessuno è nato su Saturno e che i blocchi pubblicitari vadano mandati in onda cascasse il mondo appena finisce il match è notorio. Ma siamo certi che un inserzionista che ha speso fiori di soldini per far comparire il proprio marchio in quel contesto sia poi così felice di essere mandato al diavolo da quelli che volevano godersi lo spettacolo di gioia e dolore del post-partita, di conseguenza esponendolo, quel marchio, a una dose di pensieri distruttivi e dunque negativi ai fini della sua promozione?
E poi: riempire di parole uno spazio, quando lo spazio parla da solo, non ha senso. Magari qualcuno dovrebbe imparare l’arte del silenzio più che della chiacchiera, anche se si è bordo campo. Non ci vuole molto a capire che fra uno stadio che esplode di emozioni e un ex giocatore che solidarizza con Criscito, forse sarebbe meglio lasciar parlare lo stadio e posporre e dopo, (un bel po’ dopo) l’atto di solidarietà. Che ci fosse discrasia fra i tempi di DAZM e quelli di Marassi lo si è visto più volte: “Facciamo sentire lo stadio!” dicevano i nostri. E nel frattempo lo stadio riprendeva fiato. I nostri riprendevano la giaculatoria post-gara e lo stadio riprendeva a farsi sentire, genoani compresi.
Alla regia sarebbe bastato alzare il volume dei microfoni, scatenare le telecamere per lo stadio, indugiare sui dettagli di volti, sulle gradinate e in campo per proporre uno spettacolo unico. Già, ma bisognava che i commentatori facessero un passo indietro. E non è successo.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).
Recensisce in stile sportivo libri non sportivi per la newsletter “Lo Slalom”.