O voi nostalgici di Gomorra, in alto i cuori: Gennaro Savastano e Ciro Di Marzio sono tornati. Solo che hanno assunte le fattezze di ragazzine adolescenti e praticano la ginnastica artistica. Ma lo sguardo con cui osservano se stesse e le avversarie, i ruoli di dominatrice-sottomessa, quell’essere prede di una furia competitiva che altera i loro connotati, quella fragilità profonda che si nasconde sotto l’odio professato per qualunque ostacolo si frapponga fra loro e il compimento della missione (diventare campionesse) cui hanno sacrificato l’esistenza…Come non vedere in quegli sguardi la stessa complessità, lo stesso sentore di una maledizione cui non si può (e talvolta non si vuole) sfuggire che ha accompagnato Genny e Ciruzzo in tutte le stagioni della loro avventura? La serie “Corpo libero”, sei episodi, presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e in procinto di sbarcare su Paramount+ mercoledì prossimo (approderà nella seconda parte del 2023 su Rai 2) è un teen-drama che però sarebbe più opportuno chiamare un gymnastic-thriller o un parents-drama, nel senso che il drama assalirà, dopo la visione, più di un genitore fra coloro i quali hanno spedito le loro figlie in palestra.
A farla diventare una sorta di Gomorra dello sport è in primis il fatto che le protagoniste sono napoletane e il loro slang è quasi sovrapponibile a quello degli interpreti gomorriani. Una squadra di artistica si sposta in un hotel isolato sulle montagne abruzzesi (una sorta di “Gagarin Hotel”, quello del film di Simone Spada con Amendola e Argentero) dove è in programma un meeting internazionale. Sappiamo da subito che c’è una vittima ma, almeno per due episodi ignoriamo chi, perché le linee narrative sono due: quella che parte dall’omicidio e quella che lo precede. Ad accomunarle è la figura di Martina, la più “umana” del gruppo: Diana e Nadia sono le bulle che umiliano e schiavizzano le compagne nell’assoluta indifferenza (o complicità) dei pochi adulti presenti. L’ambientazione montana (siamo in mezzo alla neve) richiama inevitabilmente echi kubrickiani di ”Shining”: ma in questo caso a instillare i brividi nello spettatore, come del resto succedeva anche in Gomorra, è l’assoluta realisticità della situazione. Chiunque abbia letto la biografia di Nadia Comaneci o abbia seguito su Netflix la serie “Atleta A” incentrata sulla figura del Dottor Nassar e degli abusi da lui compiuti ai danni delle ginnaste americane, si ritroverà in un ambiente analogo: quello in cui la finzione fatta di abbracci, sorrisi e di luoghi comuni sullo sport che-tiene-lontano-le-ragazzine da-guai-peggiori, fa da maschera ad un abisso di sfruttamento, di guai alimentari e cicli mestruali che non arrivano o vengono repressi, di personalità che non crescono, di ragazzine che a sedici anni concepiscono la vita come un qualcosa che dura fino a venti e poi chissà.
Il tentativo di esser una via di mezzo fra giallo e denuncia è riuscito? Così così. L’isolamento nell’albergone in montagna che ricorda così da vicino Rigopiano (e una tragedia scaturita da una valanga viene più volte citata) priva la serie di una contestualizzazione più “reale”: così come le riprese degli esercizi (antichissimo problema) solo in parte restituiscono il dramma fisico e psicologico cui le ragazze vanno incontro ogni volta che salgono su una trave o saltano fra le parallele asimmetriche. Si capisce che sono tentativi in qualche modo accennati, manca un qualcosa che un uso più frequente e oculato del ralenty (memento “Momenti di gloria…”) avrebbe trasmesso.
Ma la serie ha l’indiscutibile merito di mettere l’accento sul fatto che (il ritiro di Simone Biles da quasi tutte le gare di Tokyo vi ricorda qualcosa?) non sempre lo sport con cui ci illuminiamo, illumina anche l’anima di chi lo vive. E se l’anima non si nutre e precipita nel buio, si scivola in una Gomorra, quella vera.
PIERO VALESIO | È stato critico televisivo del quotidiano Tuttosport per oltre vent’anni. Come inviato ha seguito Olimpiadi, grandi eventi di calcio, tennis, Formula 1, Motomondiale e sport invernali. Dal 2016 al 2020 ha diretto il canale televisivo Supertennis e ha curato la comunicazione degli Internazionali d’Italia. Ha tenuto e tiene corsi di giornalismo e di comunicazione sportiva. Nel 2015 ha vinto il Premio Coni per la narrativa inedita con il racconto “Marcialonga Blues”. Ha scritto libri per grandi (“E vissero felici e lontani” con Antonella Piperno, Perrone editore) e piccini (“Cronache di Befa”, Biancoenero edizioni).