Il Tour de France 2020 si è concluso in modo spettacolare, con l’inatteso ribaltone della penultima tappa. Tadej Pogačar, a 20 anni e 364 giorni, è il secondo vincitore più giovane della storia (meglio di lui solo Cornet nel 1904 a 19 anni e 352 giorni). Il suo Tour è stato spettacolare ed emozionante, con continui attacchi in salita e una cronometro finale da tramandare ai posteri. La lotta con il connazionale Primož Roglič, capitano della corazzata Jumbo-Visma, è stata appassionante e ha regalato un finale inaspettato che ha fatto sobbalzare sui divani milioni di tifosi in tutto il mondo, con eccezione della Gazzetta dello Sport by Barigelli, organizzatrice del Giro (non sembrerebbe), che ha snobbato per 3 settimane la Grande Boucle, preferendo puntare ogni giorno (!) su Vidal-Dzeko-Suarez-Milik-Kanté.
Detto del gradimento del pubblico per le telecronache Rai di Pancani&Saligari più Genovesi (Sport in Media ha ricevuto molti messaggi di persone over 50 che, grazie alle telecronache Rai, hanno seguito per la prima volta una gara ciclistica: sarebbe delittuoso non puntare sulla stessa squadra anche al Giro…), durante il Tour si è sviluppata una singolar tenzone tra giornalisti e tifosi “innocentisti” vs “diffidenti“. Chi è abituato a seguire il ciclismo su Twitter, sa perfettamente che esistono molti profili internazionali che analizzano tempi, VAM, wattaggi, ecc. delle salite più importanti. L’ex allenatore Antoine Vayer, paladino anti-doping e autore del libro cult “Not Normal” oltre che co-autore di “Confessioni di un ciclista mascherato“, è uno dei massimi rappresentanti del partito dei diffidenti su prestazioni e pulizia del ciclismo attuale. Durante il Tour anche l’ex pro Stephane Heulot (ultimo bretone a indossare la maglia gialla) ha dichiarato che non guarda questo Tour perché le prestazioni e le persone che circolano ancora in questo mondo non sono credibili. Anche Romain Feillu, ex pro francese (1 giorno in maglia gialla nel 2008) ha lanciato sospetti sulle prestazioni della Jumbo e di Wout Van Aert.
In Italia, invece, è Marco Bonarrigo (Corriere della Sera, twitter @cyclingpro) a rivestire il ruolo del “diffidente verso l’attuale ciclismo” o, sarebbe più corretto dire, il giornalista che ha sollevato questioni morali e/o dubbi sulle performance dei principali protagonisti. Bonarrigo ha approfondito la questione dell’oggetto non identificato (modem o integratore?), tolto dal ds della Deceuninck, Davide Bramati, dalle tasche del dolorante Remco Evenepoel al Lombardia. Questione che ha portato all’apertura di un’inchiesta da parte dell’UCI. Durante il Tour ha dedicato un approfondimento alla vicenda del controllo sulla bici di Roglič dopo la tappa del Col de La Loze, con relativa espulsione del ds della Jumbo-Visma, Merijn Zeeman, protagonista di una reazione incontrollata. Infine, riprendendo una polemica già sollevata da diversi media europei, ha sottolineato la presenza di persone non proprio immuni da critiche (eufemismo) nello staff della UAE, la squadra di Pogačar. Nel dettaglio, l’accoppiata Mauro Gianetti e Joxean “Matxin” Fernandez, massimi dirigenti della squadra di cui fa parte anche Fabio Aru, è la stessa che guidava la Saunier Duval (quella di Piepoli e Riccò 2008) e il Team Geox di Cobo Acebo, vincitore della Vuelta 2011, poi revocata per doping (anomalie del passaporto biologico), qualche anno più tardi. Una coppia criticata pesantemente anche da Carlos Sastre, vincitore del Tour 2008. Matxin, per intenderci, è la persona che ha lungamente abbracciato Pogačar al termine della crono di sabato. Gianetti, inoltre, fu protagonista nel 1998 di una vicenda raccontata dal NY Times.
Questo modo di fare giornalismo di Bonarrigo ha sollevato moltissime critiche da parte di tifosi e media. La coppia Gregorio-Magrini, telecronisti di Eurosport, ad esempio, non ha affatto gradito i pezzi del Corriere e ha criticato Bonarrigo in diretta parlando di “caccia alle streghe”. Su Twitter e su Facebook molti appassionati hanno accusato – con i toni che potete immaginare – Bonarrigo di voler rovistare nel torbido e volere il male del ciclismo. Altri hanno difeso a spada tratta il ciclismo con la consueta formula di rito – che sentiamo da fine anni ’90/primi ’00 – secondo cui “il ciclismo è lo sport che fatto di più contro il doping. Altri, calcio, in primis, cosa hanno fatto?”. Insomma, il partito degli “innocentisti” ha sommerso di… critiche quello dei diffidenti.
Quindi, da che parte si pone Sport in Media? Nella precedente esperienza di Blog-In dentro lo Sport ho approfondito ampiamente la questione doping&media, sottolineando come i media italiani abbiano avuto grandi colpe nella mancata informazione e sensibilizzazione sul tema, agendo nel modo esattamente opposto rispetto a quello tenuto dalla maggioranza dei media internazionali (Spagna a parte). La Tv pubblica tedesca, per esempio, ha creato un vero e proprio team giornalistico, dedicato alle inchieste su doping, scommesse e scandali. Da alcune di queste inchieste sono nati veri e propri procedimenti con relative condanne: la scorsa settimana è stata la volta dell’ex presidente IAAF, Lamine Diack, condannato per corruzione in un processo nato dai documentari trasmessi da Ard. I media italiani, infatti, durante il periodo peggiore del doping nel ciclismo (per convenzione: dal 1994 al 2010) hanno bellamente sorvolato sulle devastanti problematiche che hanno minato a fondo la credibilità di questo sport meraviglioso. Anzi, hanno finito per esaltare – anche col senno di poi – alcune imprese rivelatesi poi truccate/farlocche per stessa ammissione di molti protagonisti. Insomma, la stra-grande maggioranza dei media sportivi italiani ha preferito puntare alla difesa del proprio orticello (…), anziché raccontare i fatti e denunciare una situazione insostenibile.
Venendo all’attuale questione, si può dire che i pezzi di Bonarrigo siano ovviamente malvisti dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Appassionati che amano il loro sport e non ne vogliono sapere di ombre e sospetti. Scrivendo questo tipo di articoli ci si espone al rischio di “accanimento verso una disciplina” e di “vedere/cercare del marcio in ogni risvolto del mondo ciclistico”. Un modo di raccontare il ciclismo che non esalta incondizionatamente le imprese di Roglič, Van Aert, Pogačar &Co. ma che sottolinea le contraddizioni, i dubbi e le anomalie del sistema. Sull’altra sponda, invece, si finisce per toccare l’estremo opposto, respingendo aprioristicamente ogni tipo di dubbio o critica e accusando la controparte di voler il male dello sport, senza però entrare (quasi mai) nel merito delle varie questioni.
Il punto di equilibrio tra le due posizioni è molto difficile da trovare. Si può dire che Pogačar ha compiuto un’impresa incredibile, che ha emozionato e fatto trepidare milioni di tifosi? Si può sottolineare il suo talento cristallino, già emerso alla Vuelta 2019? Che il finale di questa edizione del Tour sia stato esaltante? Ovviamente. Anzi, lo si deve fare. Ma allo stesso tempo, è doveroso – per chi fa giornalismo e ha l’obbligo morale e professionale di raccontare i fatti – rimarcare come nello staff dell’UAE ci siano dei personaggi dal passato non proprio immune da critiche o sospetti. Si può dire, anzi si deve dire, che il ciclismo, purtroppo, non è stato capace di liberarsi di molte figure discutibili, che hanno contribuito a scavarne la fossa da cui sta cercando lentamente di uscire. Qualche esempio? Fatevi un giro sul sito dopeology.
In conclusione, occorre evitare gli estremismi (ombre e sospetti sempre e comunque), ma è altrettanto necessario sfuggire a qualsivoglia forma di difesa corporativa e aprioristica. I fatti, le prove, i documenti sono l’unica strada da seguire. In tre parole: oggettività, obiettività, equilibrio.
Immagine © ASO / Pauline Ballet