“Penso sia molto triste che la squadra di maggior successo al mondo debba anche solo prendere in considerazione una fusione con un altro team per trovare sicurezza per il proprio futuro. Questa è la prova evidente che il modello economico del ciclismo professionistico è completamente sbagliato”
Johan Bruyneel
Chi parla è Johan Bruyneel, un personaggio che nel mondo del ciclismo ha lasciato sicuramente il segno. Nel bene e nel male.
Se pochi rammentano le sue gesta da buon passista a cavallo degli anni 80-90, moltissimi ricorderanno la sua figura autoritaria dietro i trionfi di Lance Armstrong. Era infatti il direttore sportivo di quella US Postal (poi Team Discovery) che con il cowboy texano ha stracciato tutti i record al Tour de France.
Dettaglio: come sappiamo, alla base c’erano un uso sistematico di EPO ed emotrasfusioni. Ma questa è un’altra storia.
Nel virgolettato, Bruyneel si riferisce a quella che può a ragione considerarsi la squadra di ciclismo professionistico più forte sul mercato: il team Jumbo-Lease a Bike (già Jumbo-Visma), squadra olandese capace di vincere tutti i grandi giri a tappe del 2023, con Roglic (Giro), Vingegaard (Tour) e Kuss (Vuelta).
Il team si trova su piazza da una quarantina d’anni e, meglio conosciuto come Rabobank, main sponsor per ben 16 anni, ha segnato la storia di questo sport.
Ebbene, il problema è che, a fine 2023, circolavano voci che il team manager Richard Plugge stesse valutando la fusione con un’altra squadra (la Soudal) o fosse alla ricerca di un nuovo sponsor (Amazon?) perché comunque le casse “non erano così floride”.
Ecco allora la provocazione di Bruyneel: “Houston abbiamo un problema!”.
Se anche la squadra World Tour più forte e vincente si trova a dover fare i conti con un riassetto, a dispetto dei successi, forse c’è qualcosa che non va nel business del ciclismo professionistico.
Questa riflessione è diventata attuale in questi ultimi mesi proprio alla luce del recente progetto di riforma (l’ultimo di una lunga serie) dell’assetto del ciclismo professionistico mondiale da parte dell’UCI e di un gruppo ristretto di team.
Il nuovo progetto, denominato “OneCycling”, è nato e cresciuto con inevitabili polemiche, dal momento che la posta in palio, come spesso accade, più che il merito sportivo, riguarda il “vil denaro” e vedrà probabilmente l’entrata in gioco di qualche fondo di investimento.
Ma facciamo un passo indietro.
“Mamma sono arrivato uno”: il ciclismo dei tempi eroici
Guardiamo allora a come era organizzato il mondo del ciclismo professionistico fino a qualche decennio fa.
Il sistema, immutato per anni, prevedeva l’allestimento di squadre sotto l’egida di un forte main sponsor: all’inizio si trattava delle case costruttrici (Bianchi, Legnano, ecc) e di marchi legati al mondo del ciclismo (Campagnolo), che spingevano anche per promuovere e associare i propri prodotti a campioni vincenti (con esclusione del Tour, dal ’30 al ’68, dove gli atleti gareggiavano per la propria Nazionale).
Poi sono arrivati i grossi industriali che facevano da mecenate (Salvarani, Carrera, Ariostea in Italia, Renault, Peugeot, ecc ….all’estero).
Ricordiamoci che prima del calcio, in gran parte dell’Europa del dopo guerra, il ciclismo era lo sport popolare per antonomasia, poi ha ceduto lo scettro al “football”, perdendo peraltro via via consenso anche a causa della piaga del doping, che ne ha minato la credibilità.
In ogni caso, questa disciplina ha continuato a godere di forte visibilità e attenzione mediatica e, con il crescere dell’offerta tecnologica e di quella televisiva, si sono moltiplicati esponenzialmente anche gli interessi che giravano attorno a questo business.
1989: nasce la Coppa del Mondo
Nel 1989 si è mossa direttamente l’Unione Ciclistica Internazionale, che ha pensato bene di mettere mano al calendario, creando un elenco di corse di un giorno, le cosiddette “classiche”. Si trattava delle più importanti corse per prestigio e si è pensato bene di assegnare anche una nuova maglia a chi avrebbe ottenuto più punti in tutte queste manifestazioni, dando vita così alla “Coppa del Mondo”.
Già qualche anno prima, l’UCI aveva introdotto un ranking per atleti e squadre, che poi servirà per far acquisire un punteggio utile appunto a partecipare alle competizioni più importanti.
Anche il meno smaliziato, avrà intuito che il passaggio è stato epocale, soprattutto perché in ballo c’erano un sacco di proventi derivati dall’enorme visibilità garantita da questi eventi (soprattutto agli sponsor).
Non a caso, proprio in quel periodo hanno fatto il loro ingresso, quali sponsor, nuovi soggetti, come gruppi bancari e finanziari (Banesto, Cofidis, Credit Agicole, Radobank), compagnie telefoniche (T-Mobile, Euskasatel), aziende di scommesse o società del lotto, ed infine grossi gruppi del comparto alimentare (Brioches La Boulangére, Gerolsteineer, Vini Caldirola).
La geo finanza del ciclismo stava mutando pelle: dal mecenate appassionato ai grossi gruppi/multinazionali. In un contesto sempre più globalizzato poi, si allargavano i mercati e, pian piano, si espandeva anche il calendario, con corse confinate non più solo nel Vecchio Continente, ma estese a tutto il pianeta (ciò soprattutto dopo il 2000).
Dal Pro Tour al World Tour: come girare la stessa frittata.
Ma il coup de theatre l’UCI lo dà nel 2005, sul tramonto dell’Era Armstrong, con l’istituzione del Pro Tour.
Di fatto, si tratta della costruzione di una lega chiusa, se vogliamo sulla falsa riga di quella SuperLega calcistica oggi d’attualità, con la quale ci si prefiggeva l’obiettivo di cristallizzare i players (le squadre), massimizzando gli introiti, anche con la previsione di una vendita globale dei diritti televisivi.
Senza entrare nel dettaglio, i regolamenti varati dall’UCI per l’ottenimento della licenza prevedevano (e prevedono tuttora) rigidi requisiti economico-finanziari, di struttura e di gestione sportiva. Non solo, ma ciascuna squadra Pro Tour doveva avere un organico di almeno 25 corridori e partecipare a tutte le corse in calendario.
Una soluzione sicuramente necessaria per dare continuità a quel tipo di business ma che, di fatto, era riservata ad investitori/sponsor di livello e con una struttura solida. Rimanevano certo le squadre “continentali”, team di dimensioni più contenute, per lo più escluse dal ciclismo che conta, salvo qualche wild card per gli eventi più importanti.
Neanche a dirlo, le prime magagne arrivano subito, quando gli organizzatori dei grandi giri e delle classiche si scontrano a muso duro con l’UCI, che voleva gestire in maniera unitaria i contratti pubblicitari e televisivi, mentre gli organizzatori pretendevano autonomia. Nel 2008 si consuma quindi la prima rottura e gli organizzatori di Tour, Giro e Vuelta ritirano le proprie corse a tappe dal ProTour.
Le frizioni avvengono soprattutto con A.S.O. (Amaury Sport Organisation), che organizza il Tour de France, la Vuelta, la Parigi-Roubaix, la Liegi-Bastogne-Liegi in ambito ciclistico e poi la Dakar, la Maratona di Parigi, nonché gli open francesi di golf. Insomma, ASO era ed è una superpotenza, e si rivelerà uno dei più acerrimi oppositori delle idee nate in seno all’UCI, posto che il solo Tour de France attira attorno a sé interessi mediatici ed economici enormi, che l’organizzatore francese non contempla di poter spartire con altri.
Non passa tanto tempo e i contendenti trovano una sorta di armistizio in tema soprattutto di ripartizione dei diritti e così, nel 2011, nasce il World Tour, dove rientrano le classiche e i grandi giri: di fatto cambia il nome, ma non la sostanza
Il sistema però non convinceva tutti i soggetti coinvolti, in particolare le squadre che, alla fine della fiera, avevano poca voce in capitolo e, per di più, partecipavano in modo marginale alla spartizione dei ricavi.
Da una cordata di squadre nasce Velòn
Arriviamo dunque al 2014, quando prende vita un progetto denominato “Velon”, un consorzio formato dalle migliori squadre del World Tour (11, eccetto l’Astana), rappresentato dal manager inglese Graham Bartlett, già in Nike e Uefa che, all’epoca disse: “vogliamo portare più interesse per questo sport, e renderlo più attraente per i tifosi. L’obiettivo è aggiungere valore al ciclismo”. Tre erano i pilastri di questa proposta:
1) uno sport più eccitante;
2) l’introduzione di nuove tecnologie, che portino il tifoso “dentro” la corsa, a contatto diretto con il campione;
3) un solido modello economico delle squadre, con pianificazione a lungo termine.
Lo stesso Bartlett disse che, in quel momento, il budget dei team era legato al 95% agli sponsor: un modello non sostenibile.
Per la verità, messi da parte gli aspetti economico-commerciali, le idee e le proposte portate avanti dalle squadre, tramite Velon, sono state molto interessanti, a partire dal lancio di una app per seguire in tempo reale i corridori, monitorarne le prestazioni ed i dati, l’utilizzo di telecamere montate sulle bici, la proposta di nuovi format di gara, con l’obiettivo di attirare nuovo pubblico e rendere il ciclismo più accessibile.
Il tutto è esitato poi in un accordo commerciale tra la stessa Velon e Infront, della durata di dieci anni, mediante il quale le squadra si impegnano a condividere i dati raccolti attraverso telecamere on-board, recettori audio e sensori per il corpo, che, opportunamente riuniti e interpretati, vengono messi a disposizione delle emittenti, di modo che possano usarli durante le trasmissioni della corsa.
Ma dopo i primi proclami di non belligeranza, ecco puntuale l’insorgere di dispute anche tra Velon e l’UCI: primo pomo della discordia un documento del 2015, che Velon chiedeva ai ciclisti di sottoscrivere e mediante il quale, a dire dell’UCI, gli atleti cedevano in un sol colpo ai team di appartenenza i loro diritti di immagine, di proprietà intellettuale e anche la dichiarazione dei dati personali.
La questione perse poi di interesse e, va detto, Velon negli ultimi tempi ha ridotto la propria spinta e influenza, dal momento che alcuni team hanno fatto un passo indietro rispetto al progetto.
Rimane tuttavia su più fronti, quali ad esempio la creazione e lo sviluppo di un manageriale online sul ciclismo, chiamato Fantasy24 (https://go.roadcode.cc/fantasy24).
Insomma, siamo alle solite: il problema sono ed erano i diritti, soprattutto quelli con un valore economico.
Un nuovo modello economico per il ciclismo
Arriviamo quindi ai giorni nostri ed alle parole di Bruyneel: “il modello economico del ciclismo professionistico è completamente sbagliato”.
Siamo nel 2024, e ancor oggi la situazione è immutata: nel ciclismo le squadre non percepiscono nessun ricavo proveniente direttamente dai diritti televisivi: il grosso della torta viene diviso tra UCI e ASO.
Ciò comporta che i team siano totalmente subordinati alle decisioni degli sponsor, non potendo contare su altre entrate impattanti sul bilancio.
Dopo la rivoluzione del ProTour nel 2005, l’idea di riformare il sistema è stata portata avanti, con alterna convinzione, da tutti i successori di Verbrugge alla guida del UCI ma, per ovvi motivi, non ha mai visto la luce.
Da qualche tempo David Lappartient, l’attuale massimo dirigente del ciclismo mondiale in carica dal 2017, sta provando a far passare il “nuovo ordine” attraverso una riforma che, però, è stata finora rivelata in maniera parziale, con anticipazioni e proclami, senza che ci sia ancora un qualcosa di definitivo.
Nel progetto, che dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2026, si diceva fossero coinvolti anche i team, almeno quelli più quotati. La data non è casuale, perché coincide con l’assegnazione delle prossime licenze triennali.
Il nuovo progetto sembra porterà ad una riduzione delle corse e ad evitare sovrapposizioni tra gare del World Tour, inoltre si insisterà su di una maggiore sicurezza in gara, con una specifica formazione per gli organizzatori: è del giugno 2023 l’annuncio della creazione di SafeR (for SafeR oadcycling), una entità indipendente, impegnata a migliorare la sicurezza delle competizioni maschili e femminili del calendario stradale internazionale dell’UCI (proprio Plugge ha recentemente chiesto un’attivazione anticipata di SafeR, alla luce del grave incidente occorso al Giro dei Paesi Baschi 2024 – qui l’articolo di “Ultra Slo Mo” sulle successive polemiche).
Si parlava insistentemente di creare una UCI Champions League, sulla falsariga di quella già esistente per il settore della pista che, prodotta dal gruppo Discovery, sta ottenendo un discreto successo, anche in termini di visibilità: si vorrebbero individuare una quindicina tra corse da un giorno e mini giri da 4-6 tappe, per i quali approntare una classifica e un premio a parte.
Ancora nebulosa la questione dei diritti: si parla sempre di una gestione comune dei diritti televisivi e viene ventilata l’ipotesi di creare una società ad hoc che per produzione e la promozione delle gare.
OneCycling e i fondi di investimento
Ma ecco che a fine 2023 arrivano indiscrezioni, raccolte anche dal sito specializzato cyclingnews.com, che parlano della nascita di una nuova entità, sotto il nome di “OneCycling”, con il coinvolgimento comunque dell’UCI.
Cinque squadre leader del WorldTour, tra cui Sudal e Jumbo, starebbero lavorando a un piano segreto per scuotere il modello di business del ciclismo professionistico, attirando grossi investitori e finanziatori. Inutile dire che il primo pensiero va ai fondi medio orientali e, in particolare, al fondo arabo PIF che, forte di una liquidità pressoché illimitata, sta investendo in maniera massiccia in tutto il settore dell’intrattenimento sportivo, si vedano i casi della Saudi League nel calcio e della lega di golf LIV.
In buona sostanza, il piano è quello di creare una sorta di nuova società all’interno dello sport che riunisca squadre, organizzatori di gare e UCI per creare nuovi flussi di entrate. Ciò avverrebbe attraverso una varietà di mezzi:
- raggruppamento dei diritti di trasmissione di gare più piccole,
- condivisione delle entrate con gli organizzatori,
- commercializzazione dei diritti di immagine degli atleti,
- creazione di una piattaforma di e-commerce per vendere prodotti della squadra
- creazione di una piattaforma digitale per i contenuti ciclistici.
Altre idee chiave includono
- la creazione di un calendario delle gare ridotto, più selettivo ma anche maggiormente comprensibile per i fan,
- e forse anche la considerazione di un tetto salariale o di budget per operare un livellamento tra le squadre.
Il fondo arabo PIF avrebbe messo sul piatto ben 270 milioni di dollari per una Superlega del ciclismo
L’arrivo del capitale di rischio e anche di una nuova serie di gare cambierebbero lo status quo di questo sport.
Proprio il team manager della Jumbo, Richard Plugge, interrogato sulla questione ha lapidariamente commentato “è ovvio che il ciclismo sia un gigante addormentato e meriti un modello di business migliore, per tutte le parti interessate, ma soprattutto per i team (WorldTour). L’unico modo per arrivarci è la cooperazione”.
Emerge poi la necessità di guardare al business sportivo globale ed alla competizione con altre discipline mediaticamente più esposte: “C’è un grande problema per il futuro del ciclismo – aggiunge Plugge -. Per questo dobbiamo guardare al di fuori dello sport. I nostri concorrenti, alla tavola dei negoziati, non sono gli organizzatori o le altre squadre, ma sono gli altri sport, il calcio, la Formula 1 o la NFL”.
Come si può ben capire, le varie proposte sono interconnesse e, nel bene o nel male, l’UCI comunque dovrà giocare un ruolo, così come l’ASO (il principale tra gli organizzatori), giacché, di fatto, tutte le squadre, per promuovere i propri sponsor, dipendono in modo massiccio dal Tour de France.
Plugge ha una visione per certi versi illuminata del progetto: “Io la vedo come un insieme, quindi stiamo cercando l’unità – conclude – Ed è per questo che si chiama One Cycling. Sarebbe fantastico se riuscissimo a raggiungere questo obiettivo per il prossimo ciclo WorldTour nel 2026” (fonte cyclingpro.net).
I maggiori siti di informazione ciclistica dicono che ci sia sotto un interessamento molto forte di SRJ Sports Investments, società di proprietà del fondo arabo PIF, di cui sopra, che avrebbe messo sul piatto ben 270 milioni di dollari.
Questa cifra è bel lontana dagli investimenti operati dallo stesso interlocutore nel calcio (si pensi a cosa è stato speso di soli ingaggi per la Saudi League), ma rappresentano circa il 20% del fatturato annuo totale del ciclismo professionistico (!) e la metà delle sponsorizzazioni totali delle 18 squadre maschili del WorldTour. Numeri dirompenti, mai visti in questo ambito e che possono spostare gli equilibri.
Si tratta di un’idea sicuramente affascinante, che servirebbe a ridare slancio a uno sport che “vanta” un modello di business molto arretrato rispetto ad altre discipline e, ad esempio, alle leghe nord americane in genere. Tuttavia emerge altrettanto chiaramente che sarà necessario anche un profondo accordo tra le parti coinvolte (UCI, organizzatori e team), con una spartizione dei ruoli che si prospetta molto complicata da gestire, così come quella degli introiti.
La situazione è in divenire, ma proprio questi ultimi aspetti sono quelli che tengo sospesa ogni riforma.
Stiamo a vedere.
Per un approfondimento, potete consultare l’intervista rilasciata da Simone Salvador all’interno della rubrica Bike2U di OASport, condotta dall’ottimo Gianluca Giardini, non perdetela!