La pensione nel basket NBA: chi si accontenta, gode

Partiamo con una provocazione: sapete che in NBA esistono le pensioni “baby”? Come nell’Italia degli anni ’70, anche oltre oceano c’è un sistema previdenziale che premia lavoratori con pochi anni di “contributi” (!). Qui da noi è una misura che ancor’oggi crea scandalo, nella lega di Lebron è stata una delle tante conquiste portate avanti dal sindacato dei giocatori. Ma ci arriveremo.

Cogliamo intanto questa provocazione per approfondire un tema che spesso passa sotto traccia, quello della previdenza riservata agli sportivi, soffermandoci sul sistema in vigore nell’NBA, che prevede appunto la possibilità di andare in pensione a 45 anni, pur avendo maturato appena tre anni di servizio nella Lega.

La questione, come vedremo, è chiaramente molto ampia e vale la pena di essere indagata perché fa emergere un lato non sempre sotto la luce dei riflettori e spesso marginale rispetto alle glorie sportive degli atleti: il “dopo”.

Chiariamo subito che il tema del come sopravvivere dopo il ritiro può essere “meno sentito” per le grandi star che abbiano accumulato in carriera grosse somme e che, quindi, saranno meno preoccupate, ma tocca ovviamente molto di più la sensibilità di quegli atleti che hanno guadagno meno e hanno bisogno di sicurezze previdenziali.

Bob Cousy, stella dei Boston Celtics dal ’50 al ’63 e leader del sindacato dei giocatori

In ambito NBA su questa tematica ha giocato un ruolo fondamentale la NBPA (National Basketball Players Association – www.nbpa.com), il sindacato nato negli anni ’50 sulla spinta anche del suo primo presidente, Bob Cousy, stella dei Celtics, per tutelare i giocatori NBA che, all’epoca, non guadagnavo grosse cifre, non avevano un salario minimo e nemmeno, appunto, un piano pensionistico.

Da una costola dell’NBPA, è nata poi un’altra sigla, la NBRPA (National Basketball Retired Players Association) che rappresenta gli interessi degli atleti in pensione.

Il testo fondamentale è il contratto collettivo di lavoro (Collective Bargaining Agreement – CBA), stipulato tra la NBPA e la NBA, che stabilisce i termini e le condizioni di lavoro per tutti i giocatori di basket professionisti che giocano nella National Basketball Association, nonché i rispettivi diritti e doveri dei club NBA, della NBA e della NBPA. L’ultimo accordo è dell’aprile 2023 e consta di ben 676 pagine (!).

Come per ogni buona sigla sindacale che si rispetti, anche l’NBPA ha condotto le proprie battaglie a suon di scioperi, non tanti per la verità, ma sempre incisivi: d’altro canto un campionato senza atleti non può svolgersi ed ecco allora i famosi “lockout”, l’ultimo dei quali avvenuto nel 2011.

Il lockout è più di un semplice sciopero, perché qui le parti sono effettivamente in trattativa per raggiungere un accordo su talune tematiche salariali e previdenziali che ruotano, in sostanza, attorno alla suddivisione degli ingenti proventi derivanti dai contratti televisivi globali dell’NBA.

Ma vediamo cosa hanno ottenuto con queste battaglie.

1. PIANO PENSIONISTICO

I giocatori NBA hanno un piano pensionistico sin dal 1965, in forza del quale qualsiasi giocatore con almeno tre anni di servizio nella lega potrà ricevere una pensione mensile e l’accesso ad altri benefici (lì vediamo dopo). Per maturare un anno di servizio, un giocatore deve essere stato sotto contratto per almeno una partita durante la stagione NBA, anche se non ha effettivamente messo piede sul campo.

Secondo la NBRPA, dopo alcune modifiche al contratto intervenute nel 2017, le pensioni sono aumentate di quasi il 50%: tanto per capirci, per un ex atleta che decida di andare in pensione, si è passati da un importo minimo di $ 559 al mese per ogni anno di contratto a circa $ 800. Con il nuovo accordo del 2023, la cifra è poi salita a 1.001,47 $ per ogni anno di contratto.

Come detto, i giocatori possono iniziare a ricevere pagamenti già a partire dai 45 anni (Early Retirement Pension) ma, come è normale che sia, i pagamenti saranno ridotti. La Lega e il sindacato stimolano ed invitano gli (ex) giocatori ad esigere la pensione a partire dai 62 anni di età (Normal Retirement Pension), in modo da poter poi percepire l’emolumento in misura piena. 

Si stima che un 62enne, con una militanza di 10 o più anni nella NBA, guadagni in media oltre $ 200,000 all’anno dalla sua pensione (Il “Gallo” può stare tranquillo, essendo arrivato a 16 annualità, quindi starà sui $ 16,000/mese!). Il minimo invece che un giocatore NBA in pensione riceve all’età di 62 anni è di circa $ 36,000 all’anno, e questo per chi ha maturato solo tre anni di servizio (non male).

In ogni caso, l’ammontare massimo della pensione non potrà superare i 265,000 dollari annui.

Indubbiamente il contratto NBA, da questo punto di vista, “paga bene” se pensiamo che, per fare un confronto, un veterano della NFL (football americano) all’età di 55 anni, con 10 anni di anzianità, percepisce circa $ 30.000-40.000 all’anno, al lordo delle imposte, (fonte San Francisco Chronicle).

I giocatori NBA hanno anche accesso al piano NBA 401(k), un programma di risparmio pensionistico che consente loro di versare una parte della loro retribuzione in un conto pensionistico a tassazione differita, a cui possono contribuire anche le singole franchigie di appartenenza con identico importo, in modo da costituire una sorta di TFR” da incassare al termine della carriera.

Insomma, un sistema complesso e ben articolato, con al centro il destino del giocatore.

Anche e soprattutto da parte del sindacato, vi è poi un grande senso di appartenenza e di solidarietà verso i giocatori ritirati da tempo, per i quali vengono comunque portate avanti battaglie al fine di avere adeguamenti per le loro pensioni: “È bello vedere che i giocatori di oggi riconoscono quanto sia importante restituire a quelli in pensione“, ha detto Caron Butler (campione a Dallas nel 2011), che fa parte del consiglio di amministrazione della NBRPA. “Siamo così grati di essere ancora parte di una lega come l’NBA che capisce l’importanza di prendersi cura di noi e delle nostre famiglie. Una volta che fai parte di questa confraternita, è una cosa che dura tutta la vita”.

Delonte West, ex Cleveland, Boston e Dallas.

Pensiamo al caso di Delonte West: si dice che in carriera abbia accumulato quasi 16milioni di dollari, tutti dilapidati in men che non si dica. L’ex playmaker dei Celtics ha spesso fatto notizia per le ragioni sbagliate, tra cui il consumo spropositato di alcolici, la vita da mendicante, l’essere picchiato da alcuni malviventi, ecc. 

All’epoca in cui giocava a Cleveland, fu fermato con diverse armi da fuoco contenute in una custodia per chitarra e poi -sembra- ebbe anche una storia con la mamma di Lebron, mai confermata, che portò quest’ultimo a trasferirsi a South Beach, per “quieto vivere”. Ora West, afflitto da disturbo bipolare, ha 40 anni e vive per strada.

La buona notizia è che la pensione NBA gli fornirà una fonte di reddito affidabile e a lungo termine dandogli la possibilità di migliorare la vita in modo significativo (quando West compirà 45 anni, potrà percepire 1.633 dollari al mese, essendo una pensione “anticipata” ai 45 anni).

2. PROGRAMMI EDUCATIVI

Un’altra recente aggiunta che sta aiutando molti giocatori in pensione consiste nel programma di rimborso delle tasse universitarie: in pratica, viene data la possibilità all’ex giocatore di tornare a scuola e iscriversi a corsi universitari, ottenendo un rimborso delle tasse scolastiche fino a $ 33,000 all’anno.

L’ex stella dei Mavericks Caron (Butler) ha affermato che “oltre a migliorare il programma pensionistico, si è inclusa anche una componente educativa e ora i giocatori in pensione, che non hanno terminato i loro studi, possono tornare a scuola, oppure i ragazzi che hanno ottenuto i loro diplomi possono approfondire ancora di più la loro istruzione. La Lega ha fornito fondi sufficienti per mettere a disposizione 120.000 dollari per ogni persona che abbia giocato nell’Associazione”.

Come sappiamo il sistema di reclutamento dei giocatori nelle leghe americane passa maggiormente per i canali universitari, autentica fucina di talenti, ma il problema è che, terminata l’esperienza al college con il passaggio tra i Pro, il giocatore perde la relativa borsa di studio e la voglia poi di riprendere gli studi una volta chiusa la carriera agonistica.

Non tutti escono dal gioco del basket con milioni di dollari, quindi avere questo sostegno finanziario fa la differenza” ha aggiunto Butler. 

Lo spazio eventi all’interno della sede del NBPA a New York

Le associazioni sindacali si sono battute poi per formare gli atleti e stimolarli ad una “responsabilità fiscale”, in modo da invertire la tendenza che li vedeva dilapidare in poco tempo i compensi percepiti da giocatori. Teniamo conto che spesso i cestiti NBA hanno un’estrazione sociale, economica e culturale tale per cui si trovano catapultati da una realtà di miseria alle luci della ribalta, senza essere in grado di gestire adeguatamente fama e denaro.

L’NBA e la NBPA hanno programmi educativi per i giocatori in attività e i giocatori appena ritirati che insegnano loro come gestire le proprie finanze, come essere un brand da valorizzare e sfruttare anche dopo: è stato un vero e proprio cambiamento culturale, con notevoli risvolti anche in termini di immagine per l’intera NBA che, ovviamente, preferisce esibire atleti ed ex giocatori vincenti e realizzati sul campo e nella vita.

3. ASSISTENZA SANITARIA PER TUTTA LA VITA

Ma non è solo una questione di denaro: in un paese con il sistema medico come quello degli USA, potersi permettere un trattamento sanitario è importante tanto quanto percepire un salario. Ancor di più per gli ex sportivi che possono essere affetti da lesioni croniche. Per questo motivo, un giocatore con diritto alla pensione ha garantita anche un’assicurazione sanitaria privata per il resto della vita

In caso di pensione minima, questa copre le necessità basilari e le coperture crescono con gli anni di militanza in NBA, fino a garantire l’intera famiglia se si superano i suddetti 10 anni.

La copertura sanitaria è una conquista recente, arrivata solo nel 2017, ma frutto di battaglie iniziate nel 1991, quando l’ex stella dei Knicks, Earl “The Pearl” Monroe, veterano NBA da 13 anni, ha iniziato ad avere problemi di salute (un anno dopo essere stato inserito nella Hall of Fame).

All’epoca NBA e NBPA gli dissero che non avrebbero potuto aiutarlo, perché inidoneo a ricevere l’assistenza sanitaria riservata ai giocatori in attività: Monroe in seguiti subì più di 47 interventi chirurgici e le relative fatture degli ospedali statunitensi, solitamente molti esosi (Monroe si “salvò” economicamente perché riuscì a sfruttare l’assicurazione sanitaria prestata dall’associazione degli Artisti Radio/TV, in quanto in carriera era anche apparso in una serie di spot televisivi!).

In seguito, insieme ad altri veterani, Monroe si spese per la causa e, solo oggi, ha visto premiati i suoi sforzi.

Con l’aggiunta dell’assistenza sanitaria anche per i giocatori in pensione, ci siamo elevati in una posizione ammirevole all’interno dell’intera industria sportiva, perché questa tutela non esiste in qualsiasi altro sport“, ha detto Scott Rochelle, Presidente della NBRPA.

“C’è un po’ di Italia anche in NBA”, grazie a Matteo Zuretti, responsabile Chief International Relations and Marketing per la NBPA

IL RUOLO DEI PROVENTI DAI DIRITTI TV

Alla base di tutte queste conquiste, vi è la consapevolezza che il business del basket USA è letteralmente esploso a partire dagli anni ’80 e, con esso, i lauti guadagni garantiti dai contratti televisivi e pubblicitari.

Da qui sono partite le lotte tra proprietari (la Lega e il proprio Commissioner) e gli atleti su “come redistribuire i profitti”, con un occhio, non scontato, al principio di solidarietà verso tutti quegli atleti che del gioco hanno fatto parte e terminato la propria carriera, ma che avevano senz’altro contribuito ad elevare il valore del prodotto “NBA”.

È probabile, inoltre, che le cifre in gioco aumentino ancora in modo considerevole visto che il nuovo contratto per i diritti televisivi, che Adam Silver ha concluso con i vari player (è riduttivo parlare solo di emittenti – Disney, Comcast e Amazon) ha moltiplicato gli attuali incassi della NBA arrivando alla cifra monstre di 76 miliardi di dollari in 11 anni. Questi ingenti introiti avranno ripercussione diretta anche sul fronte della previdenza, di sicuro.

Non è stato un percorso semplice e veloce, ma per molti veterani parte del motivo per cui questi cambiamenti sono finalmente avvenuti è legato al coinvolgimento e all’intervento diretto di grandi star NBA, come Lebron James, Chris Paul, Kevin Durant, Stephen Curry e Dwyane Wade, mediato da una vecchia conoscenza del nostro basket, Spencer Haywood, già alla Reyer Venezia, a soprattutto stelle dei primi Lakers dello Showtime anni ’80 (vedi la serie tv “Winning Time”!). 

Il quadro che abbiamo analizzato ci spiega bene anche perché tanti giocatori preferiscano magari restare in NBA con un ruolo minore rispetto a quello che potrebbero avere, ad esempio, in Eurolega, sperando di maturare l’anzianità necessaria per garantirsi un ritiro dorato a fine carriera.

Se così fosse, con un pizzico di ironia, potremmo parlare di “turismo sportivo previdenziale”.

Matteo Zaccaria | Coltiva la passione per tutti gli sport (tranne il cricket, che rimane un mistero), ma non ne pratica neanche uno (!). Avvocato vicentino, ma non “magna gati”. Appassionato del racconto sportivo in tutte le sue forme. Ritiene che se ti svegli nel cuore della notte per guardare una finale NBA, o hai una passione, o un problema, oppure entrambe le cose!
“Mi piace guardare lo sport in Tv. Contrariamente ai film non sai mai come va a finire” (Michael Douglas).

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